Sand Zine

by: Andrea Ferraris

Jazz o non jazz?...la domanda sembra più semplice del ‘to be or not to be’ del vecchio William, eppure il discorso come al solito contrappone aderenza alle premesse e mummificazione da istituzionalizzazione? Eresia da superamento di un confine e arroccamento all’interno delle solide mura della cittadella dei dogmi?. Tuttavia leggendo le riviste jazz specializzate ogni tanto fanno capolino anche nomi Zorn (Tzadik) e quel Tim Berne (Screwgum) che sarebbero proprio i corrispettivi americani di etichette come l’Amirani (www.amiranirecords.com)... misteri della fede (o forse dovremmo dire dell’esterofilia)!. Come anche per l’Improvvisatore Involontario ero rimasto incuriosito dal tipo di uscite e dal modo di proporsi ed ho finito con l’imbattermi in un tipo di realtà che spesso è molto più nobilmente ‘off’ di quelle che già conoscevo. In fin dei conti se gente come Krimson, Iceburn, Primus, Anatrofobia, Flying Luttembechers è partita da altri ambiti ibridandosi con il jazz è anche vero il contrario e non parlo di misconosciuti jazzisti o di ‘neo radicali’… Davis, Coltrane, Coleman... dicono nulla? Ellington stesso non era un famoso alchimista? ...ma in tempi di integralismo ‘catto-islamico’ meglio non esprimere mai apertamente certi pensieri.

John Zorn (Tzadik), Tim Berne (Screwgum), Roy Paci (Etna Gigante), Francesco Cusa (Improvvisatore Involontario)…e Gianni Mimmo con Amirani: perché un jazzista decide di aprire un’etichetta?

Vorrei cominciare col dire che io non mi sento propriamente un jazzista, ma vengo da lì. A dire la verità non mi sento neanche interamente un musicista. Tempo fa, molto tempo fa, lessi una frase di Pierre Klossowsky che è divenuta una specie di fissazione per me: ‘aggiungere al mondo solo sinceramente’.

È un tempo di enorme, forse eccessiva, produzione: libri, dischi, performances. Alla fine degli anni 70 Stockhausen dichiara che ‘tutta la musica era già stata scritta’ e che ‘non avremmo avuto che la possibilità di tentare assemblaggi’. Io penso però che accostare non sia sempre ‘comunicare’. Ad incuriosirmi continua ad essere la scintilla che rende possibili le relazioni fra le persone, fra gli artisti e il loro sentire, la necessità di rendere documento un urgenza di espressione. Ecco, credo che a muovermi sia stata soprattutto la scoperta che queste relazioni sono spesso magiche. Mi piace scoprire che aspetti inattesi sgorghino da private e a volte minimali investigazioni. Il lavoro artistico sincero è spesso velato da modalità stilistiche. Ma se a quella persona mi è dato di rivolgere domande circa il suo lavoro, trovo o meno quella sincerità di cui sono ghiotto. Nel caso in cui l'indagine si rivela positiva, trovo un punto vibrante in una rete immaginaria che a poco a poco scopre la verità di connessioni ed incontri. Ho aperto la piccola avventura di Amirani Records perché credo nella relazione tra sensibilità.

La seconda ragione è di ordine documentario. In un percorso certe tappe meritano di essere segnalate da una bandierina. Una mappatura direi. Sono noioso, mi piacciono poche cose. Non è giusto chiedere ad altri di occuparsi di produzione di cose che piacciono a me. Così mi è più semplice tracciare una linea editoriale rigorosa e monacale, che sia un setaccio circa la responsabilità. La terza ragione è di ordine quasi religioso, gnostico. È come se la luce fosse frammentata in miriadi di luminescenze sparse, l'etichetta ha potere aggregante delle luci sparse. Mi dona l'occasione di riconoscerle da una posizione di investigazione. Cosa che soddisfa il mio ego in modo sublime.

È portentoso sapere che una quantità di cose si agitino là fuori.

La ricerca, la sperimentazione, questa adiacenza con i suoni concreti è divenuta una faccenda che è uscita dalle accademie. I ragazzi dai 20 in su si danno un gran da fare, ci sono belle intelligenze che frugano oltre la sindrome di default, oltre il solito, oltre il televisivo. L'etichetta è frugare nel ‘tra’ per parafrasare Deleuze. Inoltre, produrre significa per me arrivare a pensare il prodotto finale come un intero e coinvolgere i musicisti, gli artisti, in una riflessione completa circa la loro e la mia idea del fare.

Quindi l’etichetta non produce/produrrà solo dischi che coinvolgono te in prima persona?

No, certo che no. Il quarto numero appena uscito intorno a natale è già infatti una produzione di un gruppo piuttosto interessante: Samsingen. Il mio coinvolgimento qui è solo produttivo e di concept. Insieme a Samsingen abbiamo a lungo discusso del progetto, della migliore resa del suono, del mixing e infine del progetto grafico. Sto ascoltando anche alcune musiche e gruppi che mi hanno inviato materiale. Lo faccio nel modo più attento che posso e vedo se qualcosa mi sollecita attenzione. Credo anche di non avere grandi preclusioni circa i linguaggi, vorrei che il profilo editoriale non fosse a tutti i costi rigido. Trovo che in certi progetti, anche distanti da me dal punto di vista stilistico, brilli un po' di quella luce che ti dicevo...

Interessante…come anche il fatto che tu sia in ‘combutta’ con Mirko di Wallace, ma non rischi di precluderti una attenzione/fruizione da parte di un pubblico più affine al jazz (so che per altro sei stato votato fra le ‘nuove proposte’)? Per altro di recente ho letto un’intervista a Vandermark dove sparava a zero sull’‘istituzionalizzazione’ del jazz americano per mano di Marsalis e delle ‘alte sfere’ del circuito…

Adoro Mirko e mi ricorda un po' di sana energia che alberga nei giovani cuori. Da lui come da altri giovani leoni del fare ho appreso molte cose negli ultimi tempi. La comunicazione è facile con lui e capisce al volo come impaginare le mie idee grafiche e mi dà una grande mano e molti disincantati suggerimenti sulla produzione. In tutta sincerità non ho mai goduto di grande popolarità negli ambiti propriamente jazz e il fatto di comparire nel rank dei migliori nuovi talenti nella classifica del mensile musica jazz alla mia età, ha un che di imbarazzante. Ho molti amici che fanno mainstream jazz, che stimo, dei quali ascolto talvolta i lavori e dai quali ricevo attenzione ed ascolto, quasi sempre critico, direi. Conosco qualche eccellente musicista che si sente un po' prigioniero del jazz. Ma avverto un po' di grigiore e trovo più attraente l'atmosfera croccante proveniente da altri ambiti. Da tempo il jazz ha svelato la sua natura fortemente idiomatica e auto referenziale. Ma anche so di molta gente che lavora sodo perché lo spazio divenga più fertile. Non sono mai stato ecumenico ma credo che le strade non sono mai state così confuse. Ho trovato attenzione per certi miei lavori in ambiti impensabili e anche in certi jazz club un po' retro'. Molte sono le cose del mondo.

So che fra le uscite in programma c’è un concept dvd dedicato alla tragedia del sommergibile Kursk, per altro se non sbaglio hai coinvolto anche Xabier Iriondo e chi altro? Ce ne vuoi parlare?

Grazie per questa domanda. Nell'avventura di questo lavoro, che sarà un dvd, non è esatto dire che ‘ho coinvolto’ Xabier Iriondo. Xabier è soprattutto un amico vero, una persona con grande sensibilità e con qualche grossa esperienza emozionale alle spalle. Questo me lo rende vicino come persona. Per certi versi è come un fratello, per me. Entrambi abbiamo una certa passione per la Storia, recente o meno che sia, entrambi restiamo colpiti dai suoi aspetti epici, dai suoi drammi, dalle pieghe che imprime sulla vita a venire, pieghe che sono più o meno consapevolmente avvertite dagli uomini. La registrazione che egli ha curato è avvenuta in una chiesa sconsacrata a Piacenza. Io e Angelo Contini, personalissimo trombonista dal timbro molto Roswell Rudd e mio sodale nel duo “Two's days/Tuesdays”, abbiamo dato vita a un duo intenso e drammatico a causa di certi strani e profondi riverberi che sono in quel luogo. La registrazione ambientale è stata semplicemente geniale. Xabier ha dislocato microfoni in vari posti della chiesa e ha operato una vera e propria regia della ripresa. Inoltre è intervenuto con l'elaborazione elettronica in tempo reale del nostro suono acustico lavorando e distribuendo vari piani sonori. Questo ha creato delle profondità e delle linee di suono che si sono andate sovrapponendo, elidendo, sollecitando nel corso della performance. La massa ottenuta ha rivelato subito una grande suggestione e ha immediatamente toccato la mia parte sensibile. C'erano sensazioni di qualcosa di intoccabile, una specie di claustrofobica oppressione e senza dubbio qualcosa di drammatico e quasi teatrale. Angelo diceva che era una specie di danza compressa. Io ho avvertito dei suoni di macchina navale, di profondità scura e anche una sorta di ricerca. E poi mi è stato tutto chiaro: era il Kursk. Rispetto al lavoro, questa chiave di lettura della musica registrata, ha rappresentato una rivoluzione.

È iniziato un lungo elaboratissimo lavoro di editing delle parti che insieme a Xabier e Angelo abbiamo svolto con la cura che meritano le cose non minimali.  Da questo punto in poi comincia il vero e proprio lavoro: ho elaborato una specie di questionario e ho rivolto le stesse domande ad artisti visuali: i fotografi Elda Papa e Simone Fratti e a mio figlio Agua per la parte video e il montaggio. L'idea non doveva, e non è stata, documentaria. Io ero e sono ancora affascinato dall'aspetto epico della vicenda.

I tempi di Omero sono andati. Le sue parole assommavano storia e narrazione e archetipi. Sono le radici dell'immaginario. Oggi gli eventi sono esaminati da una cronaca attenta, analitica e indagatoria. Così quello che la cronaca poteva darci ci è stato dato. CNN, BBC, la tv Norvegese hanno fatto esaustivi servizi su tutti gli aspetti del fine del Kursk e persino del suo recupero. Beh, io vorrei occuparmi di una immaginazione intorno alla faccenda. Così è successo che per es. Elda ha pensato che uno degli items fosse ‘aderenza’ fra i corpi all'interno del sommergibile, i corpi erano ‘nella’ tragedia, erano ’la’ tragedia. Simone ha pensato che ormai potevamo pensare a Kursk solo grazie ai resti, Agua ha pensato che il suo immaginario era principalmente filmico. Io sono affascinato dalla figura del tenente di vascello Kolesnikov che chiuso nell'ultimo compartimento sicuro del Kursk insieme a un manipolo di sopravvissuti all'esplosione scrive una piccola nota tecnica nella quale con lucidità ci dice che nessuno di loro si salverà. Chiude quella verità nella propria mano. Il rescue norvegese che giungerà laggiù dopo settimane troverà quel biglietto nel suo pugno. Beh se questo non è degno di Omero.. Stiamo finendo il montaggio video, credo che sia una delle cose migliori cui mi sia stato dato modo di partecipare.

Beh, per altro con Xabier in un certo senso condividi anche la professione esatto? So che hai una bottega di liuteria (si dice così?) per sassofoni…

Non è esatto dire ‘liutaio’ di strumenti a fiato. In italiano si dice più volgarmente ‘riparatore’. Io mi sono specializzato in strumenti ‘vintage’ e faccio questo lavoro da circa vent'anni. Xabier invece si è dedicato alla ricerca di strumenti ‘vintage’ o meno su strumenti particolari, a corde, primi grammofoni, monochord, pedali artigianali etc., abbiamo un tipo di curiosità molto simile in effetti, ma le nostre ricerche sono diverse.

In “Bespoken” il sax o gli strumenti acustici hanno una parte di secondo piano rispetto agli altri tuoi lavori ed alle altre uscite dell’etichetta. Parlando con te ho avuto come l’impressione che tu subisca parecchio il fascino di certe forme di elettronica…

Sì, l'elettronica ha sempre avuto un grande fascino per me. Una specie di incantamento.

Proprio dall'inizio del mio interesse per la musica o per il suono, se vuoi. C'è una cassetta registrata, ma anche un nastro di un tape recorder che si chiamava Geloso, parlo della fine degli anni 60, in cui gioco con le frequenze ad onde corte di una bellissima radio Grundig che il mio babbo aveva portato a casa. Avevo 13 anni. Mi piace molto la pionieristica analogica, i primi esperimenti Ircam, in particolare la loro applicazione ambientale su testi classici. E poi tutti quegli esperimenti negli studi Rai : Berio, Maderna e naturalmente MEV, con Alvin Curran e Richard Teitelbaum, che ho visto dal vivo diverse volte anche in duo con Braxton con quel progetto.. “Time Zones”. Esiste una intera serie di letture radiofoniche della Divina commedia con la voce di Vittorio Sermonti e la musica a cura dell'Ircam di Parigi che è un capolavoro. Questa possibilità di trasportare l'ascoltatore in modo quasi onirico, questo appellarsi direttamente a uno strato profondo della fruizione, beh questo è grande! Il passaggio al digitale ha, come tutti sanno, operato una ulteriore trasformazione con benefici e perdite. Ma il musicista che opera nell'elettronica con sobrietà e gusto ha per le mani notevoli possibilità. Espressive e di precisione. Credo che con l'elettronica, a lavorarci sodo, un musicista comprenda molto anche di sé e del suo modo di organizzare le componenti del suo lavoro.

Lorenzo Dal Ri è un maestro per me, una specie di avatar. Ho imparato ad ascoltare con più attenzione i suoni lavorando con lui e anche con Xabier Iriondo. Con entrambi si va verso una specie di metalinguaggio. Per “Bespoken” Lorenzo ha lavorato con grande cura e sobrietà e credo che abbiamo messo a fuoco la relazione. A differenza di altre esperienze, dove emergono narrazioni più marcatamente soliste e di derivazione idiomatica e stilistica, nel rapporto con l'elettronica spesso devo abituarmi a qualcosa di più complessivo e sommatorio. Quindi è buona abitudine esercitarsi nel mettere a fuoco diverse profondità. Ecco, proprio questa possibilità di rimettere in discussione il proprio suono con il live electronic, questa idea del suono come campione…le trovo categorie di grande interesse. Senza parlare delle possibilità di una qualità migliore della registrazione, grazie all'elettronica.

Ritorno sull’intervista nella quale Vandermark (ma anche Gustavson) sparava a zero sul processo di istituzionalizzazione del jazz americano. Per quel poco che so/vedo quello italiano segue a ruota, per altro recentemente leggevo un’intervista fatta a Bollani in cui rispondeva amaramente ad un giornalista che le cose andavano meglio per il jazz italiano solo se ci si riferiva a 3, 4 musicisti e che, essendo anche organizzatore di un festival, vedeva come purtroppo a meno in cartellone non comparissero Rava, Bollani, Fresu o Cafiso la gente non si muoveva…tu cosa pensi in proposito?

Il jazz è istituzionalizzato perché non è percepito più come divenire e perché è ossessionato dalla sua matrice popolare. Ha bisogno ancora di legittimarsi come forma d'arte. Solo che lo fa come tutte le musiche classiche del pianeta e cioè con la celebrazione. D'altra parte non è mai stato così celebrato. Musicisti ripercorrono stili di 40/50 anni fa come fosse il linguaggio, l'arte. Sono venute meno le mozioni artistiche. Tutto qui. Mai come ora gli stili hanno mostrato la povertà del loro stesso autodefinirsi. È il tempo dei manager seduti, dei PR e di una commedia del tempo che fu. Che posso fare se non continuare a cercare? Questa è la domanda che dovrebbe farsi un musicista. Ma molti impiegano molta parte del loro tempo a studiare le frasi di Parker, e fin qui tutto bene, ma la cosa grave che ciò diviene il loro linguaggio e con fondono il loro linguaggio con al propria musica. Non aggiungono, non tolgono, non crescono. Anche Parker era ‘out’ al suo tempo, ma aveva strada davanti. Nella classifica dei suoi musicisti preferiti il primo jazzman veniva al quarto posto. Prima c'era Stravinsky e il poeta Omar Kayam. Quando suonava, la gente diceva: chi accidenti è sto pazzo? Ma si sapeva che era lui, si capiva che scavava. Ne sarebbe certo scaturito qualcosa…se ascoltavi il disco dicevi: ecco Henderson, ecco Coltrane, ecco Dolphy e così via. Oggi dici: assomiglia a Henderson, questo è un coltraniano ecc. Si riconosce quasi tutto fino a Braxton, a Hemphill. Poi, nebbia.

Oggi per un musicista in contatto con sé non c'è strada davanti, il jazzman di oggi guarda indietro. La verità è che le strade sono confuse e che c'è una rete di possibilità estremamente ricca tutto intorno. Alcuni dei musicisti bravissimi che hai citato sono anche ottimi manager di sé stessi e questo è un vantaggio nel rapporto con le istituzioni e con il denaro. Il festival di Fresu a Berchidda è abbastanza coraggioso e la gente ci và. Poi non sono così sicuro che la gente non si muova se non ci sono certi nomi. Sono i luoghi strani che hanno strane impennate. Mi ha sempre colpito come certe piccole, piccolissime realtà locali abbiano idee e proposte più coraggiose di grandi città. Per una volta all'anno un teatro greco in cima a una montagna ospita migliaia di persone che vengono e sentire concerti alle cinque del mattino, bellissimo. È che l'attenzione a ciò che si muove non c'è da parte delle istituzioni e la cultura alle volte è nelle mani di funzionari-politburo che applicano tutti i parametri possibili tranne quello della attenzione a ciò che si muove. In molti ambiti è così: guarda le programmazioni delle stagioni concertistiche teatrali: la musica che vi si ascolta ha almeno 100 anni.

Vaneggio un tempo in cui molte realtà possano esibirsi vicine. Vaneggio tempi vivi e fecondi, nei quali metallari che spaccano chitarre possano scambiare idee e palchi con serissimi violoncellisti bachiani. Anche la socialità è venuta meno, incontrarsi ai festival negli anni settanta era una esperienza di comunicazione. Oggi nella migliore delle ipotesi la fruizione è televisiva. La contraddizione sta nel fatto che oggi i musicisti sono più avvicinabili di prima. La mail, i siti, la rete. Il problema è, come dicono a Roma: ‘che se dovemo dì?’ Io mi dico che è sempre una conquista quando la gente non capisce, quando non riconosce, quando non riesce a categorizzare. Non mi interessa che ci sia consenso. Mi interessa che se la gente non esce sorpresa da un concerto, almeno che ne esca sospesa…che gli resti qualcosa da pensare e da provare a decifrare. La musica così non rimane fuori da chi ascolta, gli rimane in po' addosso. Non finisce lì. che poi è il suo compito.

...certo il metallaro di fianco al jazzista ed al bassista dub sono un’immagine che funziona bene (anche nei Painkiller)...ma il rischio latente non è quello di cercare di ‘fingersi aperti a tutti i costi’ quando poi alla luce dei fatti non è così? Insomma il rischio non è che poi ci si forzi in un'apertura a 360° che poi è solo virtuale?...a volte provo ‘quasi’ simpatia per certi ambienti reazionari, almeno hanno l'onestà intellettuale di parlare apertamente e di dire come la pensano...non trovi?

Io parlavo della possibilità di esibirsi nelle stesse programmazioni. Voglio dire che le programmazioni delle stagioni, dei festival, non possono continuare a essere settoriali in un momento dove i settori hanno fluidi confini. Una programmazione deve avere una linea concettuale e applicarla con i contributi di prospettive differenti. Anche in filosofia è così: l'archetipo è limpido, i pensieri che gli si agitano intorno sono molteplici. Non puoi continuare a basare ogni scelta sul budget e sul suo rientro, questo è ormai palese. Io non sono affatto aperto, ma sono possibilista. Io non ho paura della mia curiosità, ad essere precisi, non me frega un accidenti. Sono i reazionari, come tu li chiami, che sono solo chiusi. È facile fare affermazioni che sembrano oneste, quando si ha il potere. Questo atteggiamento genera fascino e simpatia. È tattica, fratello. Non si tratta di sincerità, si tratta di arroganza. Questo in generale. In questo paese poi, si possono succedere governi di ogni colore, ma chi ha il potere, ad esempio della difesa, è e sarà per lungo tempo ancora un democristiano, qualunque sia il nome del partito al quale appartiene. C'è da riflettere, direi.

Sono estremamente critico circa le collaborazioni a tutti i costi. Ho già detto e ripeto che ‘accostare non significa affatto comunicare’, il più delle volte non succede.  Non sono affatto convinto che operazioni tipo Scanner (Robin Rimbaud) che mixa Sciarrino siano necessarie, e sto citando senza dubbio un nobile esempio. Le cose non sono fatte sempre per funzionare. Anzi io credo che le cose siano fatte per non funzionare. Solo che provarci, il meglio possibile, porta in scena questo lavoro. Ed è questo che la musica deve fare: lavorare e mostrare il proprio lavoro. Non c'è bisogno di domandarsi cos'è, quando è. Se vogliamo parlare di ciò da cui il jazz, o quello che continuiamo a chiamare così, dovrebbe trarre nutrimento le contraddizioni sono veramente evidenti nella loro povertà. Vorrei chiedere se, per caso non c'è patologia nel ripercorrere stilemi e pattern consolidati e dire che il jazz è quello. Il jazz, ma direi tutta la musica, è il divenire. Il musicista che sta fermo sperimenta il suo limite e ne rimane prigioniero. Non sarebbero esistiti Armstrong, Cecil Taylor, Stravinsky, Miles, Giacometti, Braque, Picasso. Se l'apertura è virtuale, non è apertura.

Qual è il presente di Amirani? Ed Il suo futuro? Ed il tuo di musicista?

Ah, beh, il presente di Amirani Records è luminoso e caotico e travolto e ottimista. Cominciano ad arrivare con lentezza anche recensioni prestigiose (è di questi giorni quella eccellente di “Cadence” e anche di “Phosphor”). Ma soprattutto arriva musica ed idee fresche. Cerco di ascoltare tutto quanto con attenzione e cerco, dico cerco, di pianificare. Però c'è anche qualcosa di buffo e di nuovamente sociale, questo è davvero speciale. Si è aperta una nuova stagione di comunicazione per me, ad un livello più profondo, con partner, musicisti e con tutta la legione delle parole dette e scritte. Tutto questo con i pochi soldi che riesco a metterci e con il tempo che riesco a dedicarci. Ma è buono, questo tempo, è vivo e promette bene. Ho ascoltato buona musica e ho avvertito grande desiderio di fare. Le produzioni a venire sono interessanti e originali, voglio farle bene e con la cura che meritano i buoni progetti. Quest'anno vorrei uscire con quattro o cinque numeri e trovare una distribuzione. Le immagini del primo dvd Amirani records, “Kursk”; sono nella fase finale di montaggio e il suono sarà spaziale, promesso. Dovrebbe essere pronto a primavera. Tengo molto a questo lavoro. Poi sarà la volta del progetto “On War” con molti musicisti impegnati con i loro rispettivi progetti intorno a questo concetto. Un trio con Francesco Cusa alle percussioni e Andrea Serrapiglio al cello, oltre al sottoscritto, un duo di fiati che si chiama “Novotono”, contemporaneo e misterioso e un altro paio di cose che dirvi non voglio.

Il futuro è quello di maggiore e più matura identità per l'etichetta. Vorrei tenere ben saldo il principio di qualità e di fertile curiosità. Spero anche di non dover continuare a fare tutto da solo e di trovare qualche collaborazione per la comunicazione e qualche aspetto pratico...io come musicista voglio continuare a studiare la relazione con immagini, testo e approfondire lo statement elettroacustico fiati/elettronica attraverso buone collaborazioni. Lo strumento continuerà a assorbirmi molto con lo studio delle tecniche e del suono. Credo che quest'anno riprenderò l'idea del quartetto/sestetto dedicato a ‘sbagliare’ i temi di Monk. Credo di non poter vivere senza Monk, ma non sopporto l'idea di antologizzarlo…ma anche mi piace molto fare ‘stretching’ di alcune partiture contemporanee, così come è successo con Webern in “One Way Ticket”. È un mondo pazzesco, se penso che quel pezzo è stato scritto nel 1924…in passato ho a lungo lavorato con i testi di Samuel Beckett e ho diverse cose pronte. Vorrei tenere acceso il fuoco, così che quando qualcuno o qualcosa arriva... beh, spero di rimanere accogliente....