Ci sono dischi che si ascoltano, altri che si contemplano, e c'è Rumpus Room, pubblicato da Amirani Records, che accade, nella doppia accezione del verbo: si verifica e cade addosso.
Dialogo elettivo fra il sassofono soprano di Gianni Mimmo, esploratore del suono come curvatura mentale, e il cacophonator di Luca Collivasone, macchina autocostruita dal sapore futurista post-industriale (figlio bastardo di Luigi Russolo e della Signora Singer, con un tocco di bricolage dadaista), questo album non è semplicemente un "disco" nel senso classico del termine: è piuttosto una camera acustica immersiva, un'installazione sonora spalmata nel tempo, un tableau vivant di materiali uditivi a combustione poetica. Il titolo Rumpus Room, una
"camera del trambusto", un "antro del rimestamento immaginifico" suggerisce fin da subito la natura liminale dell'opera: uno spazio chiuso, raccolto, eppure in continua espansione, soggetto a eruzioni e spasmi interni. Un luogo sonoro dove il caos non è mai disordine, ma proliferazione di forme, mutazione costante, coreografia dell'imprevisto.
Il cacophonator, nella sua essenza ibrida, è la reincarnazione meccanico-poetica degli intonarumori futuristi, ma più ancora richiama la musique concrète di Pierre Schaeffer: quel gesto rivoluzionario che portava i suoni del mondo reale, registrati, modificati, sezionati, al rango di materiali musicali. Ma se in Schaeffer l'orecchio era ancora il luogo privilegiato dell'analisi e della sintesi, in Collivasone l'orecchio è sommerso, travolto, complice. Il suo strumento produce effluvi, ferraglie, tremolii, flauti idraulici, resine acustiche, lamenti di oggetti abbandonati. E proprio per questo, paradossalmente, produce immaginazione. È musica concreta non per i materiali, ma per l'effetto che ha sul corpo e sulla psiche: ci costringe a stare nel suono come si sta dentro a una stanza che si deforma.
La voce del cacophonator è tutto fuorché lineare: è aleatoria, nel senso più beriano del termine, ma mai casuale. È un magma semiotico in ebollizione, dove ogni gesto è al contempo performativo e arbitrario. In questo, il lavoro si pone come un erede obliquo di certe intuizioni di Berio (Visage, Thema), di Boulez (Dialogue de l'ombre double), o persino dello Stockhausen più mistico e fisico (Kontakte), ma senza mai cedere al compiacimento teoretico. Qui si fa prassi, come in un laboratorio mitologico in cui i suoni si fondono per urgenza, non per dimostrazione.
Accanto a questo apparato infernale, Gianni Mimmo non si fa soverchiare. Non dialoga. Non compete. Convive. Il suo sassofono soprano è, come sempre, uno strumento pensante. Ma in Rumpus Room, più che altrove, diventa sismografo, ago sensibile su un paesaggio di scosse e frane. Il suo suono nitido, riflessivo, quasi traslucido, non tenta mai di "correggere" l'anarchia del cacophonator, ma piuttosto di attraversarla. Le sue linee sono frasi incomplete, interrogative, spiragli. Si avverte la lezione di Steve Lacy, certo, ma anche l'eco di certi respiri di Roscoe Mitchell e, in controluce, una filosofia zen del gesto minimo, del suono che non si impone ma si offre.
Nel gioco con Collivasone, Mimmo non impone temi o strutture: disegna topografie dell'istante, tratteggia eventi che si dissolvono come satori, picchi di consapevolezza uditiva. Da qui il carattere contemplativo e "micro-polifonico" del lavoro: una sorta di camerismo interspecie, dove l'umano e il post-umano si fondono in un'unica presenza sospesa, viva, multipla. Rumpus
Room è uno di quei lavori che riconciliano con l'idea profonda della musica come arte dell'ascolto radicale. Non si offre come prodotto ma come esperienza. Non si limita a evocare: compone realtà alternative, paesaggi di possibilità. Si ascolta con le orecchie, certo, ma anche con la pelle, con le orbite oculari, col diaframma.
È un vaso di Pandora sonoro, non solo e non tanto per i demoni che libera, piuttosto per le forme nuove di bellezza che ci costringe a immaginare. Un disco inclassificabile, insostituibile, indispensabile, dedicato invisibilmente a chi abbia ancora il coraggio di ascoltare ciò che non ha nome.