Sands Zine
by: Etero Genio
1. “[…] Vorrei dire che esiste un’altra faccia del jazz che non è quella che ci viene presentata quotidianamente nei festival e nei seminari, anche perché credo che il jazz non stia in uno stile o in un linguaggio ma nella perpetuazione della rivoluzione che per esempio dai primi passi di New Orleans ha portato allo swing, da questo al be bop e così via […]”.
Questo è quanto mi diceva Mirko Sabatini in un’intervista nei primi mesi del 2000, concordi e pensi che nel frattempo qualcosa è cambiato?
GM: La situazione non pare cambiata e non credo cambierà. È forse peregrino attendere una legittimazione da luoghi dai quali non può arrivare.
Nel jazz, ma credo senz’altro il senso possa estendersi a tutte le musiche che conosciamo, c’è una tendenza conservativa, quasi ineluttabile, alla antologizzazione, alla definizioni degli stili. Una tendenza che dispone gli avvenimenti lungo una linea temporale tesa a creare dei punti fermi.
È una categoria insufficiente, e per molti versi negativa, in particolar modo per quelle musiche che contengono elementi sempre fertili, generativi.
Nel jazz, nelle musiche che conosco e che studio, ciò che è importante da un punto di vista artistico, è la turbolenza delle singole idee, il loro ripercuotersi nel tempo in modi sempre differenti e intriganti.
Dal punto di vista di una produzione convenzionale questi elementi rappresentano un disturbo: i festival jazz si sono schiacciati sempre più sulla posizione antologica, ripetitiva.
Trovo molto più coraggiose certe programmazioni di musica classica che fanno sempre più posto ad autori più vicini al nostro tempo, spesso inquadrandone le figure luminose a fianco di maestri del passato.
Non esiste solo un’altra faccia del jazz, esiste una profondità percorribile che connette costellativamente momenti storici, relazioni stilistiche, estetiche strumentali fra loro anche distantissime.
È qui che va esercitato il nostro sguardo creativo. È qui che dobbiamo puntare: fare le cose bene. Non credo questo ci verrà spesso riconosciuto dal festival/carrozzone di turno, la sua funzione è altrove.
Anche le modalità fruitive hanno continui spostamenti: si bada con più attenzione a quanto si compare piuttosto che alla qualità di quanto si fa.
Spesso un festival è solo un propulsore del tuo nome, non della tua arte.
Sono categorie un pochino povere, mi pare.
2. Per il tuo esordio discografico, che ha rappresentato anche l'avvio della tua attività discografica con Amirani Records, hai fatto una scelta piuttosto singolare, quella del solo strumentale ... dico singolare per due motivi: primo perché solitamente si arriva a registrare il solo dopo una o più esperienze di tipo collettivo e secondo perché si tratta di un ascolto più difficile e quindi commercialmente poco indicato quale apertura di un'attività discografica. Puoi spiegarci quella scelta?
GM: C’è molta attività precedente quel disco e ho molto lavorato con il testo, il teatro e, in generale, la performance.
In particolare ho lavorato piuttosto a lungo con la poetessa Chandra Livia Candiani e il rapporto solo strumento-sola voce mi ha davvero intrigato moltissimo. Io sono molto attratto dalla speech-melody, le cadenze e il ritmo sillabico. Lacy lavorava molto sulla scansione sillabica del fraseggio, sulla geometria ritmica delle parole. Quando ascoltai Lacy per la prima volta, fu in un duo con il poeta Adriano Spatola. La limpidezza, la nitidezza di quel concerto sono stati rivelatori per me.
Ho cominciato con la solo performance con il sax soprano a metà degli anni 90 e periodicamente l’ho documentata: c’è anche un altro solo album precedente “One Way Ticket” intitolato “Rughe” che uscì autoprodotto alla fine degli anni 90.
Ho voluto aprire in quel modo l’avventura di Amirani Records perché è un album assertivo, perentorio in un certo senso. Se fosse stato un quintetto o un trio ad avere avuto quelle caratteristiche, avrei pubblicato quelli.
È un lavoro molto intero, identitario quasi.
Un recensore americano che incontrai in un concerto negli Usa, mi disse che a distanza di 3 anni dalla sua uscita, quel disco conservava la sua certezza.
“That’s a statement, man”. E’ il mio disco più venduto, credo.
Dal punto di vista musicale era così precisamente connesso al tempo che allora stavo vivendo che non mi parve un azzardo cominciare così questo nuovo percorso. In quel lavoro si concentrano diverse traiettorie, ma sono tutte affrontate liberamente, con un approccio rigorosamente personale.
E’ un disco sui padri: quello in copertina è il mio naturale, che mancò qualche mese prima dell’uscita del disco. Compaiono composizioni di altri padri quali Monk, di Lacy, di Mingus, di Roscoe Mitchell, ma anche Anton Webern e anche mie. C’è una poesia di Scialoja e una di T.S. Eliot.
Sono attraversati. Li attraverso, questi padri.
3. Comunque sia quella scelta è stata azzeccata, se oggi sei piuttosto affermato sia come musicista sia come discografico ... Penso comunque ai molti, che pur facendo una musica di qualità, non riescono ad uscire dall'ombra, qual è secondo te il fattore che più incide nel raggiungimento dei propri obiettivi: la qualità di quanto vai facendo, lo spirito d'iniziativa o la fortuna? Oppure ce ne sono altri che non ho citato?
GM: Non so quando un musicista, un artista, possa definirsi affermato: E’ un’idea molto instabile, oggi. La fruizione della musica si è spostata dai luoghi collettivi a quelli privati, talvolta intimi come quelli creati con l’uso di minuscole cuffiette attaccate a un telefono nel quale pullulano playlist personalissime, confuse forse. C’è un nuovo aspetto, quasi funzionale, applicativo direi, che sembra rivestire la musica nella fruizione attuale per il quale mi riesce più difficile capire quanto sia davvero compreso il lavoro di un musicista. Questo si ritrova a dover coprire una serie di ruoli che lo allontanano invece che avvicinarlo al padroneggiare la propria materia, coltivare la propria formazione, comprendere e rimanere fedeli al proprio sentiero. La gran parte dell’energia se ne va in logistica, nella cosiddetta comunicazione, nella costruzione di ipotetiche relazioni, nel cercare il supporto o nel promuovere i propri progetti.
Capita spesso di assistere a progetti molto ben presentati che presto svelano pochezza di intenzioni e approssimazione nella sua concezione.
Mantenere un equilibrio fra la purezza delle intenzioni, una chiara visione del progetto e la sua promozione/affermazione, richiede senz’altro un impegno che non sarà mai ricompensato a sufficienza da tutti i punti di vista.
Uno dei fattori determinanti nella riuscita è secondo me una buona coscienza della propria forza espressiva. Questo è forse l’elemento più importante.
Pensare, domandarsi perché, essere implacabilmente curiosi nei confronti delle proprie sensibilità. Se tieni aperto quel canale, e non sempre è facile, il tuo lavoro prende spessore e genera ulteriori spinte.
L’ombra nella quale spesso il proprio lavoro, la propria musica, la propria qualità sembrano abitare è insidiosa e feconda al tempo stesso.
Feconda perché molto spesso da questa contraddizione nascono improvvisi slanci creativi; insidiosa perché il rischio inconsolabilmente auto-commiseratorio e la possibilità di avvitamento su sé stessi divengono frustranti e improduttivi.
Mi dico spesso che la legittimazione più severa deve provenire da se stessi. E’ un errore, una dispersione di energia, attendere o credere che debba giungere da fuori.
È certamente importante che il proprio lavoro venga riconosciuto, ma ancora più importante, forse ineludibile, è che sia aderente alla mia propria sensibilità, che stia nel sentiero. Che sia vero, insomma.
Il fatto che sia vero è già essere fuori dall’ombra, direi.
4. So bene che l’attività di un musicista non si limita al fare dischi, seppure seguendo la stampa specializzata del settore possa sembrare così, ma tu sei anche discografico ed è soprattutto come tale che ti rivolgo la prossima domanda. Intervistando piccoli discografici indipendenti attivi in altri ambiti musicali è emerso che oggi i dischi si vendono soprattutto ai concerti, funziona così anche nel settore del jazz contemporaneo?
GM: Sì, I dischi si vendono ai concerti, principalmente. Ci sono anche ascoltatori fedeli che comprano il disco perché hanno un percorso di ascolto personale, un proprio pantheon, ma generalmente i live sono i posti dove vendere i dischi.
Per la musica che faccio mi trovo spesso di fronte ad audience di diversa provenienza. In certe gallerie d’arte, oppure in certe chiese anglicane, in centri sociali, in teatri e in rassegne nelle quali rivesto quasi sempre un ruolo di frangia sperimentale, gli ascolti sono così diversi...
Quindi mi capita di vendere il mio disco a persone che forse non lo acquisterebbero on line (o in negozio, se ancora ne esistono...), persone che non hanno ascoltato niente del genere prima, giovanissimi e anziani.
CD e vinili... molta musica non passa più da questi supporti, ormai. Tuttavia io sono un po’ all’antica e penso che un documento possa avere anche un valore fisico.
Vedo che il vinile sta avendo un forte ritorno. Credo che, in un momento in cui il tutto tende a smaterializzarsi, il gesto di mettere un disco sul piatto continui ad avere la sua valenza micro-catartica.
Rimane intatto il valore documentativo: e forse è questa la vera funzione di una label, per piccola che sia.
La logica economica e i suoi parametri rimangono inapplicabili alla produzione indipendente. Le vendite fruttano guadagni comunque risibili considerando le energie spese.
La spinta produttiva va cercata in regioni più prossime alle proprie intenzioni culturali.
5. Dalle tue stesse risposte si capisce che è in atto una specie di rivoluzione in grado di cambiare come viene fatta la musica, come viene distribuita e come viene recepita (personalmente ho anche qualche dubbio sul fatto che una musica come noi la intendiamo, come oggetto d’ascolto, continuerà a esistere, ho piuttosto l’impressione che ognuno si farà la propria musica e per comunicare con gli altri e come oggetto di sottofondo); si tratta di una rivoluzione forse più sconvolgente di quella avvenuta con l’invenzione dei sistemi di amplificazione e di registrazione. Il disco che nella musica pop rappresentava l’elemento centrale (cioè si faceva il disco e poi si facevano i concerti per promuoverlo), ed essendo quello della musica pop il settore economicamente forte finiva comunque per influenzare tutto il sistema, oggi va perdendo la sua centralità ed è ormai ridotto a biglietto da visita per poter suonare … ti chiedo, di fronte a questi cambiamenti, e di fronte alle possibilità offerte dalla rete, non dovrebbe essere un po’ rivisto il modo in cui si scrive di musica e nel quale si fa promozione, che a questo punto risulta obsoleto?
GM: Sì, credo stia già avvenendo, questa trasformazione.
E da molte prospettive.
E’ vero che si sta spingendo la musica in angoli molto funzionali e il termine “sottofondo”, che tu hai usato, segna per me un discrimine abbastanza importante.
Questo sguardo apre forse un versante un pochino complesso da affrontare: come si è trasformata la qualità e la durata di ascolto nel corso degli ultimi 100 anni?
Già con l’avvento della radio si osservò un radicale cambiamento esperienziale e certo cambiò il modo di pensare e produrre la musica.
Ma, era “una” nuova strada.
Oggi la frammentazione/tridimensionalità delle linee comunicative, la loro continua interconnessione ha prodotto un tipo d’ascolto meno paziente e ritmato da un consumo superficiale e a perdere, qualitativamente schiacciato su una modalità basica. Televisiva, direi.
C’è un aspetto storico/sociologico che investe tutta la fruizione artistica, non solo quella musicale.
Io credo che andiamo verso una coesistenza di forme di produzione, di concezione e di fruizione.
Alcune musiche, alcune destinazioni.
Alcune avranno più porte d’ingresso per un ascolto approssimativo, funzionale magari; altre avranno ingressi più sfumati che aprono a una maggiore profondità.
Anche quando ascolto Schumann, seduto davanti a un giradischi o in una cuffia mentre scendo dal metro, credo di aver già compiuto uno spostamento da un punto di vista concettuale.
E credo sia sempre esistita una differente intensità di ascolto, una collocazione personale.
Quello che penso sarà invece davvero determinante è la qualità del substrato culturale di queste ultime generazioni, quali saranno i mattoni su cui costruire una “propria” estetica.
Forse il tema non è la scomparsa dell’ ”oggetto di ascolto”, ma quella ben più drammatica del soggetto che ascolta.
Questo sarà interessante: capire quali spostamenti hanno subito le nostre categorie in quest’ultima compressione temporale data dal predominio della téchne, come verranno trasformate da nostri nipoti.
Alzerei lo sguardo aldilà dei supporti: i cd, i vinili, l’oggetto disco, il booklet etc. e direi che nonostante questa possibile coesistenza di forme, continueranno a trovarsi modalità comunicative dirette.
Il problema non è solo di ordine produttivo, ma anche performativo.
Ma qui si apre forse un altro capitolo...
6. Il concerto sta comunque acquisendo una nuova centralità nella presentazione dell’opera musicale. Se con l’industrializzazione era stato in parte esautorato dalla diffusione via etere e dalla vendita su supporto, oggi oltre ad essere un mezzo di presentazione diretta è diventato anche un momento di commercio … per utilizzare un luogo comune, dal produttore al consumatore! Non pensi che sarebbe quindi utile lavorare di più sulla pubblicizzazione dei concerti? Le riviste jazz, a differenza di quelle dirette al pubblico della musica pop, hanno sempre riservato ampi spazi alle attività concertistiche, ma comunque si trattava di reportage post evento? Dal momento che le recensioni ai dischi cadono nel vuoto, è dimostrato, non pensi che sarebbe opportuno riuscire a spostare l’ago della bilancia da queste a una presentazione più efficace delle attività performative?
GM: Certamente occorre maggiore puntualità nella presentazione di un concerto, o di una serie di concerti. Ma mancano ormai le figure organizzative con questa funzione, svolta molto spesso dai musicisti stessi.
Il concerto è un momento fondamentale, ma il problema è più complesso.
In questa galassia, qualsiasi parametro tocchi, ottieni ripercussioni sull’intero sistema.
Se in una programmazione non esiste configurazione culturale, o se come spesso accade è solo superficiale, il rischio dell’indistinto, del calderone, è altissimo.
Il tempo sembra essere scomparso: non c’è tempo per provare i propri progetti, molto del rimanente se ne va in sforzi logistici e di promozione, si finisce per concentrare tutta l’energia nell’organizzazione e nel concerto che, nella stragrande maggioranza delle volte rappresenta il progetto in modo parziale. In questo modo si ha una successione di scintille e quasi mai un fuoco duraturo.
I progetti più ambiziosi, quelli forse più indicativi del percorso di un musicista, sono i più difficili da portare in giro: spero di poter presentare almeno una volta dal vivo il mio Prossime Trascendenze (un quintetto e un sestetto), ma sarà davvero impegnativo riuscire.
Negli ultimi anni sento che un rinnovamento della qualità rapporto musicista audience sia più che necessario, in particolar modo per le musiche contemporanee. Se ben introdotte esse trovano attenzione in audience anche molto distanti per esperienze o per ragioni sociali.
Credo ci sia una responsabilità da prendere in carico nel portare su un palco le proprie sensibilità: c’è un ruolo più attento che un musicista deve ricoprire.
Avere un senso della posizione, questo gioverebbe molto.
Agire in modo più mirato da un punto di vista propositivo, portare queste musiche nei luoghi dove raramente sono ascoltate, illustrarne le dinamiche interne, misurare la propria capacità nel comunicarle.
Alzare lo sguardo oltre la logica “ho un gig=esisto”, essere più interi di così.
Qualità: questo è il discrimine. Spesso migliora quando si confronta con territori altri.
È innegabile comunque che l’audience sia piuttosto impigrita, molto ripiegata su sé stessa, spesso senza domande.
Ho qualche annetto e posso dire di aver conosciuto audience molto più attive, piene di interrogativi, critiche, considerazioni.
Il problema è meno evidente in altri paesi, forse più usi a programmazioni più avventurose, ma in Italia è davvero palese.
Ecco: trovare il giusto modo di ri-suscitare qualche dubbio, qualche sospensione, in un’audience così auto-indulgente è il compito più importante, un po’ oltre una buona presentazione.
Il tempo chiede una riconfigurazione del rapporto con l’ascolto.
Non solo per quanto riguarda la musica. È un tempo nel quale ci sono molti trasmettitori ma pochissimi riceventi: è uno squilibrio, le cose stanno fuori rapporto, in uno stallo quasi bulimico. Anche qui: “ fare meno e meglio” sembra una ricetta molto efficace.
7. Tu suoni molto, o almeno abbastanza, anche in altri paesi, quindi sei piuttosto indicato per rispondere a questa domanda: è davvero così diversa la sensibilità del pubblico? Se così è non può dipendere da un’impostazione culturale che, fin dall’infanzia e dalla scuola, riserva alla musica un ruolo più che marginale?
GM: Non c’è alcun dubbio e non riguarda solo la musica. Ma non dimentichiamo che l’impoverimento culturale del nostro paese negli ultimi 20 anni è stato impressionante: uno spostamento pauroso verso una fruizione di tipo Luna Park, una specie di carrozzone permanente.
Pur considerando che il momento storico investe con eguale intensità tutti i paesi del pianeta trovo che, in generale, l’interesse per il fenomeno culturale sia più vivo in altri paesi e la fertilità degli incontri possibili, più forte.
L’educazione scolastica e uno sguardo più curioso sono una peculiarità che abbiamo in gran parte perduto e che andrebbe recuperata.
È come se le aperture fossero più flessibili, i pubblici più eterogenei, l’attenzione più vivace, positiva.
Io credo dipenda in gran parte dalle programmazioni e dalle loro declinazioni.
L’attività artistica, in Austria o in Finlandia ad esempio, è seguita con attenzione dal pubblico e dalle amministrazioni. Non è solo questione di supporto, comunque importante, ma soprattutto di considerazione.
Presentare un progetto è plausibile, semplicemente. Essere soggetti culturali, avere una contrattualità, trovare una relazione culturale di qualche tipo con la società. È una relazione reciproca, aperta da entrambi le parti.
Non è una cosa straordinaria, che succede solo nei paesi avanzati, è una cosa normale. Siamo noi ad essere retrocessi, a non vederne più la necessità.
La società si abitua da subito a frequentare una galleria d’arte, uno spettacolo di danza, un’istallazione in un parco.
Molto spesso le differenze di età si annullano e troviamo ai concerti giovanissimi e anziani, differenti classi sociali, provenienze pronte a mischiarsi.
La cultura è di casa, non un’estranea. Meno guardata, più vissuta da vicino, direi. C’è una compenetrazione più continua fra società e cultura.
Anche in Italia capita, naturalmente, ma più episodicamente. Questo rapporto si verifica in modo più discontinuo, diciamo.
Il sistema educativo musicale meriterebbe una totale riconfigurazione, è una vecchia storia. Il processo appare lentissimo, tuttavia esistono bravissimi didatti che in mezzo a mille impedimenti burocratici fanno un grande lavoro.
E’ davvero durissima, così.
La scuola è uno dei nostri più grandi problemi, gli investimenti nell’educazione, marginali.
Non nascondendo un certo scoramento, penso però che la formazione è senza fine, ma mai come oggi abbiamo avuto la possibilità di approfondire, di creare un nostro, proprio percorso.
I ragazzi devono cercare altre strade, forse autonome. I canali educativi mainstream non sono più sufficienti.
Lavorare con ciò che si ha, diceva Cage.
8-9. Anche se ciò che si ha è veramente poco!!!!
Recentemente mi capita con sempre più frequenza di imbattermi in musicisti che provengono da una formazione musicale punk (in particolare hardcore) e fanno sperimentazione, e anche in musicisti che sono dediti contemporaneamente a entrambi gli aspetti. In egual misura mi capita di incrociare ragazzi di formazione accademica che, oltre a suonare in qualche orchestra o formazione classica, hanno il loro gruppo rock. Tu stesso hai sperimentato delle ‘libere uscite’ dall’ambito che ti è più congeniale. Premesso che apprezzo queste commistioni, vorrei farti, al proposito, due domande ben distinte.
Possono favorire una crescita culturale del pubblico, abituandolo comunque alla conoscenza di un mondo, quello dei suoni, molto più vasto di quanto si può immaginare e facendolo uscire da un approccio aficionadesco?
Quanta è l’esigenza di sperimentare mood diversi, da parte dei musicisti, e quanto è invece un escamotage per sopravvivere in un momento in cui facendo musica in un unico ambito riesci a stento a sopravvivere (vuoi perché, come sappiamo, l’attività del musicista è sempre meno redditizia vuoi perché la concorrenza si è amplificata in modo eguale e contrario)?
GM: Sì, molto spesso le commistioni generano ascolti più interessati, non fosse altro che per il cambio di prospettiva che offrono.
In quelle “libere uscite” può capitare di assistere alla nascita di veri e propri meta-linguaggi, di territori intermedi dai quali le visuali sui rispettivi mondi sono stimolanti. Rivelanti, in un certo senso.
Tuttavia non basta accostare due o più elementi distanti per creare comunicazione, può succedere che il risultato sia anonimo, superficiale. Funziona quando si lavora con un focus, con una buona consapevolezza del materiale in campo.
Certe collaborazioni con altre forme d’arte, sono davvero interessanti.
Suonare con danzatori o poeti o pittori o scultori ad esempio. Succede non di rado che i due diversi pubblici interpretino in modo nuovo ciò che conoscono e scoprano ciò che non conoscono.
Ma anche in termini creativi: è importante misurare la propria cifra stilistica con piani differenti di tensioni, di intenzioni verbali o gestuali o visive...
È anche una questione di attitudini: ci sono musicisti polivalenti, veramente a proprio agio con qualsiasi situazione, alcuni davvero brillanti.
Forse è una vocazione più interpretativa, non saprei dire.
Io sono meno flessibile di così, ma ci sono mondi molto distanti che non finiscono di affascinarmi.
Alla seconda domanda è facile rispondere: ci sono entrambi le possibilità.
Certe volte, l’ho visto succedere più d’una, accade che un musicista non sa dov’è e prende il primo tram che passa, disposto a vedere come andrà a finire.
I tempi sono duri, lo capisco. E poi ognuno ha le proprie fisime, chi sono io per criticare?
Io sono molto attratto da certe forme. Sono piuttosto attratto dalla sensibilità del pittore, dello scultore. Mi piace questa cosa che il pittore o lo scultore vede “prima” di incominciare il lavoro. Lessi, tempo fa, certi diari di Giacometti, molto importanti in questo senso. Certe collaborazioni hanno dentro quella stessa possibilità. Ecco in quel caso sono certo che il lavoro sarà proficuo. Si tratta di relazioni, in fondo.
Artistiche, se vuoi, ma relazioni.
Io voglio continuare a sperimentare, non sempre questa cosa è foriera di libertà! Molto spesso sperimentare vuol dire lavorare in ambiti più stretti, nei quali ciò che puoi dare è, forse, solo un colore sonoro, un’idea.
E lì si concentra tutto quello che puoi fare. Tu hai uno stile, un modo di dipanare la tua matassa di suono, ma improvvisamente il tempo, la line up, il mood così distante rimettono tutto in discussione, sotto un’altra luce.
In altre occasioni il ventaglio si apre totalmente e bisogna trovare una misura senza perdere la giusta intensità. È interessante, naturalmente è una specie di specchio anche. Spesso impietoso.
10. Da parte mia cerco sempre di distinguere fra sincerità e non sincerità, fra arte e mestiere, cosa non sempre facile, tanto che spesso le due categorie vengono accomunate in un unico ordine…
GM: Sì! “Chi ci è e chi ci fa”. L’autenticità ha un valore unico ed è il solo discrimine, anche nei rapporti umani, che garantisce qualità.
In un certo senso direi che “vero” è sempre meglio che “bello”, tanto per essere assoluti.
Oggi in quasi tutti gli ambiti musicali c’è una tendenza ad apprezzare un certo atletismo. Vedo molto “catalogo” in tanti progetti. Come una musica dimostrativa, dura poco ed è presto consumata.
Onestamente trovo spesso sincerità anche in chi fa il mestiere, l’uomo per tutte le stagioni. Conosco professionisti così scrupolosi e appassionati, pronti a sposare l’idea cui partecipano con dedizione e con l’obiettivo di fare bene alla musica.
Ho visto fare il mestiere anche a qualcuno dei miei Dei: che strana sensazione. Ma alcuni erano sinceri anche in quella parte minore di sé.
Se “ci sei e non ci fai” il coinvolgimento è più profondo, forse non tutti vogliono essere convolti così. Per molti è importante sentirsi parte di un mondo così: ne imparano i codici, li sistemizzano, li ripetono e così chiudono forse la porta alla propria crescita. Non so, sono traiettorie diverse.
Si cresce anche in modo disordinato, dopotutto.
11. Tecnica e tecnicismi: spesso mi trovo costretto a difendere l’una o l’altra sponda fra chi sostiene che la musica valida è unicamente questione di tecnica strumentale e chi invece, al contrario, sostiene che dalla tecnica può venir fuori solo un inutile sfoggio della stessa. Come vedi la questione?
GM: La tecnica è il mezzo. È molto semplice. Esistono tecniche oggettive e soggettive. Nel rapporto tra queste due forze sta l’acquisizione della tecnica/mezzo che sublima la musica.
Il tecnicismo è lo sguardo corto. È chiudere il proprio orizzonte affidandosi all’esercizio, come se l’esercizio stesso fosse l’obiettivo. Il trionfo della separazione.
È anche una questione di attitudini, credo.
Sviluppare un’ottima tecnica e sposarla con la consapevolezza, la giusta sensibilità, beh... quello è davvero grande.
Per me tecnica è principalmente esplorazione: posso stare su un particolare a lungo non tanto per acquisirlo, quanto per capire quante cose contiene.
Alcune volte succede che pensi a quanti colori timbrici posso sviluppare da quel singolo segmento o indugi su un intervallo che mi sembra nasconda ancora qualcosa. Ragiono in termini complessi, l’esercizio è una porta.
La tecnica, o forse sarebbe meglio dire “le tecniche”, è/sono comunque parte integrante dell’arte. Alcuni stili, alcune svolte artistiche sono nate dalla frequentazione, dall’esplorazione e soprattutto dalla messa in discussione della pratica tecnica. In certi casi è come se contenessero la scintilla necessaria a sviluppare una cosa cui pensavi da tempo. “Don’t get bored from your own practice. Keep your music fresh”, mi disse un maestro.
Non perdere lo sguardo complessivo, potrei dire.
Ci sono anche aspetti, banalmente funzionali e relativi allo strumento che si suona. Senza un rapporto meravigliosamente bilanciato tra tecnica e sensibilità non avresti Pollini, Coltrane, Cecil Taylor. Non avresti Hendrix, Buckley, Bach. E non avresti la possibilità di ascoltare Ligeti. È quella pregnanza, è quella compenetrazione.
12. Una volta la musica era divisibile in categorie esteticamente ben riconoscibili (in linea di massima): classica, jazz, pop, folk, elettronica … Oggi le commistioni fra queste sono così tante, e poi ci sono quelle fra queste e le varie culture estrinseche, cosicché una categorizzazione è sempre più difficile … Io, da tempo, vado sostenendo una prima suddivisione che si basa sulla tipologia del pubblico, sulla circuitazione degli eventi e dei materiali, sui metodi di vendita e di promozione … in pratica, sempre in linea di massima, mi sembra che la separazione netta sia oggi fra circuiti major e circuiti indipendenti … Trovo che una comunanza di audience, di strutture, di metodologie sia molto più facile da individuare fra la tua Amirani e la Wallace di Mirko Spino che non fra la tua Amirani e la Sony (e non ne faccio una questione di meriti e/o di qualità) … condividi questa mia visione della contemporaneità (una visione basata sul dato di fatto che nella società contemporanea a valere non sono più i titoli nobiliari ma i conti in banca)?
GM: Per quanto riguarda circuitazione, metodologie e, in parte, anche strutture, sicuramente la divisione è netta. L’audience è una cosa più volatile da definire oggi, meno individuabile di un tempo.
Sicuramente in un impianto strutturale economicamente complesso come la gestione di una major, le decisioni creative si sviluppano in modalità executive e sono articolate su linee completamente diverse se le compariamo a quanto avviene in indie labels come Amirani o Wallace.
Esistono tuttavia esempi virtuosi di produzione che combinano il catalogo intelligente, stimolante e vivace, con una produzione curata e di qualità.
Guarda l’austriaca Kairos, per esempio. Se c’è un supporto, anche minimo, e una linea artistica chiara, si riesce a fare bene sia dal punto di vista documentativo che da quello di circuitazione.
Un po’ come l’editoria classica, quella dei libri. Ve ne sono alcune che crescono dal basso e fanno davvero cose egregie anche se fra molte difficoltà.
Le categorie sono più indecifrabili, è vero. Forse ha a che fare anche con il fatto che non esistono più movimenti artistici o scuole, almeno nel senso tradizionale del termine. Gli artisti sono forse più isolati, o perseguono strade, originali o meno, in modo solitario o solo superficialmente condiviso.
Anche qui: penso che ci sia una buona dose di responsabilità da parte degli artisti stessi e che la mancanza di confronti seri sul “che fare”, sulla funzione del produrre arte oggi, sul sentirsi parte di una comunità intellettuale (questo è un ruolo forse completamente perduto), abbiano generato delle linee espressive spesso di corta gittata.
Il momento (ma si tratta di cosa sistemica, credo) è certo confuso, ma anche le risposte creative sono molto mediate, spesso fagocitate da durate brevissime, subito superate da altre cose che dureranno ancor meno.
Una label indipendente può far bene e, proprio perché di soldi ce ne sono pochi, può prendersi il tempo di tenere un rapporto meno superficiale con la produzione di un album. Può fare in modo che il catalogo non sia una raccolta di demo, un album è una cosa un po’ più compiuta.
La facilità di accesso alla modalità produttiva ha spesso generato approssimazione, dobbiamo fare meglio di così.
Ma non sempre l’energia è sufficiente e in genere il musicista è refrattario all’approfondimento. Troppe cose cui pensare, forse.
Ho spesso l’impressione che si pensi più a uscire con un album, piuttosto che al suo reale contenuto. C’è uno squilibrio che mi trovo spesso a dover correggere quando mi si presenta un progetto nel quale intravedo della qualità: alla domanda “perché è necessario uscire con questo lavoro?” il musicista non sa rispondere. Forse non si ricorda più qual è la spinta iniziale, forse non ha avuto il tempo di configurarla, di confrontare questa idea.
Le divisioni del mercato, o da esse generate, sono reali, ma lo smarrimento di consapevolezza da parte degli artisti, è anche un dato importante.
Io sono stato, e continuo a essere, molto critico con l’establishment ma, se la Decca mi proponesse un contratto, manterrei la stessa lucidità, la stessa problematica attitudine? Sarei ancora così critico? O basta essere su un tram che, organizzativamente e produttivamente, funziona per dimenticare le proprie convinzioni?
Se è solo una questione di commodities, le mie categorie sono insufficienti.
Se sono un artista compiuto, problematicamente attivo, potrei rimanere lo stesso anche dopo la firma con Decca.
Il mio amico clarinettista Ove Volquartz, che ha forse un paio d’anni più di me, mi dice spesso che invecchiando si avverte sempre più chiaramente che non c’è bisogno di dimostrare niente. Tutte le cose sono già lì. E quindi si può pensare in modo più libero. Più dedicato, se vuoi.
Ho cercato di fare così anche con la mia etichetta per esempio quando ho aperto la collana dedicata alla contemporanea, territorio spesso in mano a nomi importanti della produzione discografica. Mantenere un profilo serio e credibile e non rinunciare alla propria peculiarità: questo l’obiettivo.
Pur nelle difficoltà economiche mantenere un po’ di rigore editoriale, creare un profilo che resti chiaro.
Amirani è una piccola realtà, non so ancora quanto durerà. L’impegno è piuttosto importante e seguirla da solo è talvolta totalizzante. Tuttavia, quanto fatto fin qui è il massimo che potevo e complessivamente credo sia stato un buon lavoro. Certo alcuni numeri avrebbero meritato anche più attenzione e promozione, ma questo forse presuppone una squadra, un’idea collettiva più che l’azione di un singolo.
Ma sul compito aggregativo dei soggetti culturali nel nostro paese, sulla sua costante frammentazione, sulla carenza di sistema, si può compiere un’indagine sociologica e storica davvero rilevante. E non so se i soggetti coinvolti sarebbero così interessati ad approfondire. “Approfondire” non sembra un’opzione molto frequentata...
13/14/15 A proposito di Amirani, ho notato che (con metodo e senza esagerare) hai aperto il catalogo a musicisti di derivazione non propriamente jazzistica, da una parte, e a musicisti non italiani, dall’altra … volevo chiederti se in conseguenza con ciò c’è stato un aumento nella diffusione?
Volevo anche chiederti quali sono i paesi nei quali le tue pubblicazioni sono più richieste?
E, infine, se fai degli scambi di materiale con altre etichette?
GM: Il catalogo è sempre stato aperto a molte declinazioni e a molte provenienze sin dall’inizio. Inoltre considera che nelle musiche improvvisate, nel post jazz se vuoi, compaiono davvero colori di tutte le specie.
In UK o Germania la scena è composita e non ascrivibile con facilità a questa o a quell’altra strada.
Il mio duo con Alison Blunt o il trio con Elisabeth Harnik e Clementine Gasser ad esempio... Nessuno di questi musicisti viene dal jazz ma il loro apporto è straordinariamente stimolante: una nuova musica, forse più europea con un senso formale “altro”.
Certamente la platea si è allargata e spesso Amirani Records trova più asilo in territori distanti dal jazz. Con l’apertura della linea Contemporary le cose poi si sono ancora più mescolate: avere Arditti quartet che suona un autore contemporaneo italiano e avere nello stesso disco un percussionista come Milo Tamez è un indice delle cose di cui parlo, oppure Lenoci che interpreta Bussotti o Feldman...
Sì c’è stata una maggiore diffusione e una maggiore considerazione, anche.
I paesi esteri dove più vendo sono Germania, Belgio, UK, Finlandia, Francia, USA e Giappone. Molto meno in Italia. Ho poi qualche particolare collezionista qua e là in giro per il pianeta.
Ho sempre scambiato con altre label e anche co-prodotto molto. Molto spesso queste collaborazioni possono portare la musica che faccio e/o che produco verso pubblici che non immaginavo essere interessati.
16. Mi capita sempre più spesso di ascoltare chitarristi che fanno musiche sperimentali, laddove per tradizione la chitarra veniva utilizzata soprattutto nelle musiche folk e popolari, e allora mi domando: è la musica popolare che sta diventando sempre più sperimentale o è la sperimentazione che sta diventando una faccenda popolare?
GM: Vedo che nella “sperimentazione” (troppe cose vengono chiamate in questo modo e molto spesso nascondono una noiosissima vena mainstream) la chitarra è spesso usata come porta per accedere al mondo dei suoni.
Voglio dire che si ascolta raramente il vero suono della chitarra: questa è usata nella gran parte dei casi come generatore di vibrazione e poi processate attraverso una valanga di filtri, pedali, effetti generativi etc.
Molto spesso lo skill richiesto non è quello chitarristico, ma la conoscenza dei vari device. Forse si può parlare di un altro strumento...
Musicisti che si dedicano alla sola chitarra acustica o elettrica: beh non sono molti in quel campo: nella derivazione Bailey veramente pochi, ad esempio.
Molte cose sono successe, e succedono, nell’ambito più accademicamente contemporaneo, anche se finalmente si stanno aprendo, un pochino, le porte. Penso a Scodanibbio, giusto per citare, che ha scritto cose molto belle per chitarra, modernissime. Anche nella musica di derivazione jazz il linguaggio chitarristico ha accolto più di una mutazione (si pensi all’impronta timbrica di uno Scofield o di un Frisell). La precipitazione stilistica della chitarra è più rintracciabile in questi ultimi territori, secondo me.
L’approccio più coloristico, così diffuso fra i giovani, è in parte dovuto alla facilità di accesso, credo, a un’immediata dimestichezza con la manipolazione della timbrica attraverso gli effetti elettronici.
Per molti lo strumento dal quale parte la catena sonora è meno importante di quanto si pensi.
17. Sbaglio o la composizione va assumendo per te un’importanza sempre maggiore (rispetto all’improvvisazione)?
GM: Non tengo le cose distinte, io penso sempre compositivamente anche quando improvviso. Ciò che cambia è il tempo nel quale si può costruire o indicare una possibile forma percorribile.
Molti conoscono ciò che Lacy disse a Frederic Rzewski, quando quest’ultimo gli chiese una risposta (in 15 secondi!) intorno alla differenza fra composizione e improvvisazione: “In 15 seconds, the difference between composition and improvisation is that in composition you have all the time you want to think about what to say in 15 seconds, while in improvisation you have only 15 seconds”, ma pochi ricordano che la frase di Steve prese esattamente 15 secondi.
Ho sempre pensato fosse che quella risposta fosse una composizione in sé.
In fondo, e neanche tanto, si tratta di una questione di forma.
L’improvvisazione più riuscita è spesso quella nella quale l’energia, il reciproco ascolto, la dislocazione delle tensioni, la sovrapposizione di linee e la loro trasparenza sono bilanciate, offrendo un’architettura almeno intuibile, apprezzabile, insomma.
In sostanza una testimonianza diretta intorno a qualcosa che mostra il suo modo di accadere. Una creazione.
L’improvvisazione non è una cosa semplice. È complessa: un alto grado di attenzione, di ascolto, di visione dell’insieme e allo stesso tempo una disponibilità sincera a perdersi, ad appartenere alla musica.
La spontaneità è importantissima, ma la coscienza, anche di quella stessa spontaneità, lo è di più.
Ho incontrato molte improvvisazioni perfettamente inutili nella loro entropica dispersione di energia: non basta aggiungere materiale, creare strati, aspettare che il fuoco si accenda, innescare una catena di eventi di azione-reazione, domanda-risposta, tensione-rilascio e, infine, felicitarsi se vi sono stati alcuni momenti nei quali il climax raggiunto abbia una qualche qualità.
Ho sovente ripetuto che io sono per un’improvvisazione nella quale “succedono cose”, elementi si dislocano nello spazio, offrendo angolature di sguardo e di possibile percorso.
Io mi sforzo di avere “senso della posizione”, di “vedere” la musica che sto improvvisando, di avere coscienza del “suo” tempo.
Negli ultimi anni, gli ultimi dieci direi, ho avvertito chiaramente che è così importante uscire dalla logica enciclopedica e dimostrativa.
L’improvvisazione ha una natura così alchemica che è davvero un peccato sprecare quel tesoro in una routine nella quale sciorinare il proprio catalogo di abilità.
Sto forse privilegiando un’idea più complessiva esercitando un’attenzione dinamica al particolare.
Naturalmente molto dipende dalla natura, dalla particolarità dei musicisti coinvolti: il mio sguardo iniziale è, quasi sempre, influenzato dalla timbrica, dai colori sonori.
Dialoghi a specchio, texture, aree nelle quali certi elementi tornino a presentarsi sotto nuova luce, spazi e pesi drammatici: un po’ come a teatro, direi. Tutti queste cose (e molte altre ancora) con l’obiettivo di comprendere dove va la musica che hai per le mani, di abbandonarvisi con fiducia, di consegnare una sublimazione.
Delivering è una parola che uso spesso nel descrivere la mia musica: al termine di quell’improvvisazione, deve vedersi un oggetto, una forma che rimanga a farsi osservare per un po’.
Ora: non è forse anche questa una sorta di composizione?
Istantanea, se vuoi, ma composizione.
In passato, ma vi sto ritornando ancora, ho lavorato con il testo, la parola, il teatro, la danza, l’immagine, la performance.
Tutte queste cose mi hanno probabilmente spinto a pensare/concepire in termini, appunto, costruttivamente e de-costruttivamente formali.
Ultimamente ho ripreso un discorso aperto moltissimi anni fa: l’utilizzo di partiture grafiche intese come strutture da usare come strategie improvvisative, per piccoli e più ampi ensemble.
In questo caso “vedo” la forma prima, una mappatura che può essere attraversata abbastanza liberamente, ma con indicazioni talvolta molto strette.
Uso simboli che vengono da un mio vocabolario personale, ma anche altri codificati. Più che una campitura, un paesaggio sfaccettato nel quale linearità e astrazione sono vicinissime. Il lavoro Prossime Trascendenze è il più completo, al momento, in questo senso.
Naturalmente il tempo di concezione, applicazione, ragionamento è più lungo. Ma, davvero, non credo così diverso in termini concettuali.
18. Quando pensi a una composizione per ensemble, del tipo non istantaneo, cioè a una tua struttura alla cui realizzazione chiamerai altri musicisti, quali sono gli aspetti sui quali ti soffermi maggiormente, i nodi più difficili da sciogliere, quelli che ti richiedono più tempo e lavoro prima di raggiungere un aspetto soddisfacente (forma, colore, lato emozionale ….)?
GM: Direi che gli elementi che richiedono una maggiore attenzione nella preparazione sono tre:
- Il primo riguarda, se c’è, l’ispirazione: fedeltà all’idea-scaturigine e quanto sono disposto a renderla elastica, trasformabile.
- Poi l’aspetto gerarchico dei suoni: questo ha molto a che fare con i musicisti coinvolti, la loro declinazione timbrica, le loro attitudini. Qui si decide il colore, forse. Si decide l’interazione, si delinea quell’aspetto costellativo di cui parlavo prima.
- In seguito, il modo di illustrare, rendere, la struttura chiara e percorribile ai musicisti. Quest’ultimo è un aspetto davvero importante e, spesso, determinante. E reciproco: si comprende bene la caratura delle forze in campo, ma bisogna talvolta usare esempi e metafore differenti. Quando è curata con attenzione, questa comunicazione può davvero dare grandi risultati e aprire a nuove considerazioni. Una struttura che sia solida ma anche flessibile, lineare ma animata su più livelli, che suoni naturale ma con la porta aperta allo sconosciuto. Spesso nella pittura vedo questi elementi che appaiono oggettivati sulla tela. La forza del segno o della luce. Certi dipinti, certe sculture sono così.
19. Quindi gli strumentisti coinvolti hanno una certa libertà interpretativa... ti capita mai di dover cambiare qualcosa, rispetto all'idea iniziale, o di dover accantonare del tutto un progetto perché non trovi nessuno conforme alla realizzazione della tua idea?
GM: Dipende dalle composizioni/strategie... Nella gran parte dei casi si ha la libertà di usare un certo numero di parametri e, sempre la possibilità di imprimere un’angolatura all’insieme. Tutti i musicisti hanno innanzi a sé l’intera partitura, tutti possono comprendere la dinamica, lo sviluppo complessivo e quello particolare nello stesso tempo.
Talvolta capita di dover rimaneggiare un’idea per diverse ragioni, ma in generale riesco a incanalare le possibilità.
Quando si arriva ad ascoltare il risultato di una forma che soddisfi in buona parte l’idea iniziale... beh, quello è molto gratificante, naturalmente.
E mi è capitato più di una volta di non essere soddisfatto, anche.
Sì, mi è anche successo di non poter realizzare perché i musicisti non hanno le caratteristiche che pensavo, o che credevo. Ma le difficoltà logistiche ed economiche sono la vera ragione per cui la gran parte dei progetti non si realizzano. Non puoi pensare “più in alto” perché l’obiettivo è troppo ambizioso non per ragioni concettuali, ma economiche.
19 bis. Qual è la scintilla che dà lo stimolo per una nuova composizione, qualcosa di reale, e concreto, o qualcosa di immaginario e completamente astratto?
GM: Sono stimoli esterni o interiori che arrivano, in certi casi sedimentano e poi trovano il sistema di sviluppare una loro declinazione musicale.
Come succede per la lettura: certe cose lette, messe tempo prima da qualche parte nel proprio archivio mentale e sentimentale, che riemergono diventando improvvisamente chiare: A volte dopo anni.
L’ispirazione per me ha sempre a che vedere con qualcosa di concreto.
Non sempre è immediatamente comprensibile. Alcune volte comprendo la provenienza, l’origine di quella composizione dopo molto tempo, come se la rivelazione fosse indipendente dalla musica che ha prodotto. In altri casi la forza dell’idea iniziale è chiarissima perché il richiamo che ha è fortissimo.
Certe poesie, certi testi o certi dipinti sono per me fondamentali.
Io penso alla musica come uno spazio nel quale i suoni sono soggetti quasi teatrali: è come se componendo dislocassi quelle forme in quello spazio.
Recentemente durante un workshop mi è stato chiesto se di illustrare il più precisamente possibile la relazione di un brano che ho composto con il dipinto che dichiaravo averlo ispirato.
L’ho fatto spiegando in modo molto dettagliato le funzioni che leggevo in quel quadro: il peso formale dato dalla stasi di una figura femminile, come sospesa, nell’incanto di una finestra spalancata su campi ordinati e obliqui sul versante di un colle. Una scena figurativa, dunque, che si frantuma tutt’intorno in una serie di riflessi sui vetri di quella finestra. Una specie di soglia, di sospensione, appunto. Una sobrietà nei colori di una stagione di mezzo, in quel quadro. Quindi: un forte soggetto centrale, fermo e quasi vinto da una pace fatta di piccole esplosioni di richiami, viste laterali alterate da luci diverse, dialoghi a specchio fra le cose: una calma appena increspata da dolci tensioni.
Un dipinto intimo forse, nel quale le linee sono chiare, ma nascondono il loro aspetto inquieto: è con questi elementi che è costituito quel brano.
Certe volte, accade che le parole o i rumori di un luogo giochino un ruolo attivo nel concepire uno score.
C’è una poesia di Francis Bacon che cito sempre come esempio per questo: la lessi in epigrafe a un racconto di Borges. Nella traduzione italiana risultava appena macchinosa e quindi, per comprenderla, mi accorsi che stavo rileggendo verso per verso, ricominciando daccapo ogni volta e ogni volta capendo un pochino di più. In questo modo certe parti tendevano ad accavallarsi, alcune, ripetute, sembravano scontate, acquisite.
Alla fine tutto si risolveva in una massima illuminante, rivelatoria.
In questo caso, le parole stesse e le loro ondate sillabiche sono state la struttura di quel brano. Recentemente le stavo facendo rivedere alla vocalist inglese Viv Corringham (è una composizione di oltre 10 anni fa) e mentre le dicevo che in inglese sarebbero risultate molto più facilmente musicabili, lei mi faceva notare come proprio la complessità meravigliosa dell’italiano fosse la ragione stessa della struttura del pezzo.
Altre forme arrivano così, mentre stai studiando: certi intervalli chiamano a certe costruzioni, certi suoni mi fanno “vedere” la loro stessa dislocazione e comporre diventa creare relazioni tra loro.
Oppure le armoniche contenute in certi rumori semplici o complessi, nelle voci di bambini, in certi ambienti naturali o artificiali. Si compone quando si ascolta bene, insomma.
Tuttavia non tutte le ispirazioni si concretizzano. Molte cose rimangono lì, a decantare forse. O forse ad attendere di trasformarsi in altro.
20. … E delle collaborazioni collettive cosa mi dici? Come nascono? Quali tempi richiedono per raggiungere un livello accettabile?
GM: Nascono nei modi più diversi, molte volte per connessioni improvvise e con diverse declinazioni. Da alcune nascono ibridi, spesso interessanti ma con gittata di durata variabile. Certe altre sono stabili fin da subito, altre ancora rimangono attive perché ogni volta è una scoperta.
Le formazioni/collaborazioni stabili cui partecipo hanno caratteristiche differenti, ma tutte permettono di indagare funzioni e relazioni diverse.
A livello internazionale il tempo di provare e di rodare un ensemble, un duo, un quartetto, è spesso pochissimo, in taluni casi, occasionale. Quindi, si arriva spesso in studio o dal vivo con le sole armi della sensibilità e dell’apertura.
Quando c’è un buon livello di coscienza non occorre tanto tempo per comprendere la qualità del lavoro che si sta facendo nell’ensemble e se è, o meno, una strada che promette di durare.
E poi certi musicisti sono una vera garanzia, ognuno per le proprie particolarità naturalmente. Con qualcuno di loro il legame si fa strettissimo: due parole o due suoni e si arriva subito alla stanza del tesoro.
Le formazioni sono spesso evoluzioni o spin-off d’idee primigenie, incroci o evoluzioni di un aspetto, di un colore musicale per il quale si sente di dover chiedere a quel musicista particolare di partecipare all’idea.
Come sempre è nel corso di un tour che si prende una misura, che ci si accorge che l’energia sta crescendo e che si ha a che fare con stimoli nuovi.
In certi concerti si avverte chiaramente che la materia sta prendendo una fisionomia, un’identità. Una maturità, forse.
21. Mi risulta che svolgi pure una terza attività, oltre a quelle di musicista e di discografico, sempre legata alla musica, ma di tipo più manuale?
GM: Sì, da circa trent’anni ho un mio laboratorio dove lavoro/riparo/restauro strumenti a fiato, principalmente sassofoni, clarinetti e flauti. Gran parte del mio lavoro si svolge su strumenti d’epoca e, con il tempo e lo studio, ho maturato una buona esperienza. Mi sono perfezionato in Francia alla metà degli anni 90, ma da allora ho poi proseguito da solo. E’ un buon lavoro, in parte meditativo, con molte scoperte sulla formazione del suono, che permette di affinare l’orecchio e di approfondire la timbrica in modo quasi fisico.
C’è una parte manuale che ti permette quasi di toccare il suono e gli strumenti hanno caratteri e differenti personalità.
E’ un lavoro che mi ha permesso anche di studiare approcci differenti e stili, oltre a farmi conoscere tanti musicisti.
22. E' tramite questa attività che, stando a quanto mi scrisse lui stesso in un'intervista, hai conosciuto Xabier Iriondo, con il quale è nata sia un'amicizia sia una collaborazione trasversale piuttosto importante per entrambi?
GM: Sì, ci incontrammo la prima volta nel mio laboratorio. È un carissimo amico, con lui molto ho condiviso, e spero di poterlo fare ancora e a lungo.
Ci siamo spinti fino alla creazione di una sorta di meta-linguaggio che ha fruttato non pochi concerti e la realizzazione di più di un progetto originale.
Il lavoro di recording e di elettronica che Xabier ha curato nella realizzazione del mio video “Kursk _ Truth in the End” è stato perfetto e ha generato una comunicazione e una comprensione reciproca che ci accompagna da allora.
Il nostro lavoro “Your Very Eyes” è stato davvero molto apprezzato ed è stato rappresentato più volte in ambiti molto diversi fra loro, e seguito con eguale attenzione da pubblici molto eterogenei.
Anche il lavoro sulle immagini del film di Serghej Paradjanov “Sayat Nova” svolto insieme a Cristiano Calcagnile alle percussioni è stato molto importante per i nostri rispettivi percorsi.
Percorsi che rimangono diversi, e forse proprio in questa diversità trovano la loro originalità, la loro freschezza.
Nella relazione profonda e sincera si trova sovente più di una risposta, più di un’indicazione. È un’offerta di prospettiva differente che aiuta a vedere le proprie attitudini da altra angolatura. Più di una rivelazione. È affinare la propria estetica, grazie ad uno sguardo “altro”.
C’è un grande valore in questo.
23. Con chi ti piacerebbe suonare o aver suonato (mi riferisco anche a musicisti che ormai non ci sono più)?
GM: Il primo nome che mi viene è Stefano Scodanibbio. Alla sua morte ho veramente pensato che avrei voluto così tanto poter suonare un duo con lui.
Mi piacerebbe suonare con il pianista e compositore giapponese Yuji Takahashi perché ogni volta che lo ascolto scopro un lato che non sospettavo, una modernità e coesistenza di derivazioni impressionanti.
Mi sarebbe piaciuto suonare con Julius Hemphill, con Gil Evans..
Sono tanti: con il passare del tempo mi sembra più interessante guardare ad artisti distanti da me stilisticamente. Mi piace molto la violista Ig Henneman, sono contento di incontrarla e poterla ascoltare molto presto.
24. Ed esiste qualcuno con cui non suoneresti mai, neppure se torturato (si fa per dire)?
GM: Sì.
25. Perché non lo sopporti o per paura di fare brutta figura?
GM: Sono molti i musicisti con i quali non suonerei.
Ma, per rispondere alla tua domanda: nessuna delle due cose.
Sento che non devo, non è necessario.
Vorrei non fare cose non necessarie.
26. Se dovessi consigliare a un neofita alcuni tuoi dischi, quali sceglieresti?
GM: Quando mi fanno questa domanda, di solito rispondo che i dischi in solo sono molto identificativi per riconoscere la “voce” che li anima, quindi i titoli potrebbero essere One way Ticket (Amirani Records) e Further Considerations (Tarzan Records).
In quelli ci sono delle direzioni liriche e una speciale relazione con il silenzio.
Una formula che ho spesso frequentato è quella del duo: ne ho fatti davvero tanti. Lì è più facile e intrigante osservare, data la formula così nuda, lo snodarsi del pensiero, dell’energia che li abita.
I più significativi sono certamente Lasting Ephemerals con la violinista Alison Blunt, Reciprocal Uncles con Gianni Lenoci al piano, Turbulent Flow con il violoncellista Daniel Levin e Live at Bauchhund con Harri Sjöström al sax soprano. Sono tutte collaborazioni che mi hanno profondamente coinvolto, sono lavori concettualmente e stilisticamente “interi” e attraversano quasi tutta l’area delle affinità che ho. Inoltre rappresentano spesso i nuclei generativi di ensemble più estesi come trii e quartetti fino ai più recenti Prossime Trascendenze (quintetto e sestetto) e Aural Vertigo con Sestetto Internazionale. Mentre questi ultimi sono certamente più indicativi del rapporto con una complessità a più livelli e forse i più maturi in senso musicale, i miei lavori in trio con The Shoreditch Trio (con Hannah Marshall al cello e Nicola Guazzaloca al piano) e con Wild Chamber Trio (con Elisabeth Harnik al piano e Clementine Gasser al cello), hanno una freschezza particolare e trasversale.
Il recentissimo lavoro con la pianista giapponese Yoko Miura, Departure uscito per la label Setola di Maiale del carissimo Stefano Giust, ha riscosso subito una grande attenzione nei pochi concerti live fatti finora. Le composizioni sono di Yoko, minimali, quasi infantili nella loro candida linearità. Eppure è un mondo così delicato, così suo, che non potevo approcciare che con rispetto.
Ma mi rendo conto che sto consigliando l’intera mia discografia a questo neofita!!
27. Dovendo invece consigliare a un tuo estimatore l’ascolto di materiali altrui dove cadrebbe la scelta?
GM: Ci sono alcuni ascolti che consiglio quasi sempre e sono quelli cui spesso ritorno. Hanno prevalentemente a che fare con le varie mappe che ho mentalmente redatto, hanno a che far con questo pantheon estetico così affollato che frequento.
Ascolto cose molto distanti fra loro, sia in senso temporale che stilistico: musica classica, contemporanea, jazz e derivati...
Qui metto delle cose che consiglio a tutti:
Ad esempio i brani “Se la mia morte brami” e “Sparge La Morte” di Gesualdo da Venosa dai Madrigali a cinque voci. È roba della fine del ‘500 accecante per bellezza, arditezza formale, profondità.
Io trovo, sembrerà strano, molta attinenza sperimentale con “Four Compositions” di Roscoe Mitchell uscito per Lovely Music anni fa.
Salvatore Sciarrino in “Luci Mie Traditrici” uscito per Kairos ha toccato un vertice davvero altissimo. Così come Steve Reich in The Cave, dove il concept coincide con la musica in modo completo. Non molti conoscono il lavoro di Steve Lacy sui testi di Judith Malina e Julian Beck intitolato “Packet” uscito per New Albion. Lì il suono più bello di Lacy per me.
“Interstellar space” di Coltrane e Rashed Ali e il “Kammer Conzert “di Ligeti.