All About Jazz
by: Neri Pollastri
Quattordici anni fa, all'uscita dei primi dischi dell'allora neonata Amirani Records, intervistammo il protagonista di quei dischi, nonché ideatore dell'etichetta, Gianni Mimmo, scoprendo un personaggio decisamente atipico, se non proprio unico. Da allora il sopranista pavese è stato autore di molti lavori di indubbio interesse, mentre la sua etichetta ha significativamente contribuito a diffondere in Italia la musica improvvisata e quella contemporanea, facendo conoscere importanti artisti italiani e stranieri. Siamo quindi tornati a parlare con Mimmo per conoscere l'attuale "stato dell'arte" sia della sua carriera di musicista, sia della Amirani.
All About Jazz: Cominciamo dalla dolorosa attualità: come hai passato quest'anno complicato di cautele e blocco delle attività pubbliche?
Gianni Mimmo: Il tempo si è aperto, credo avere sfruttato l'occasione per fare altro, principalmente per studiare, visto che l'attività concertistica è svanita e ho fatto solo due concerti live. Ti confesso che in più di un'occasione ho avuto la sensazione della necessità di quello "stop." Oggettivamente, stavamo correndo tutti come dei pazzi e improvvisamente avevo l'occasione per riflettere con calma. L'opportunità di riascoltare! Un vero lusso... e ho scoperto quanto fosse necessario riascoltare. Non trascurerei l'aspetto ammonitorio di questo tempo: ero troppo schiacciato sul fare e avevo bisogno di guardare. Per questa ragione, nonostante l'affermazione possa sembrare cinica (il prezzo pagato a questa pandemia è stato, e ancora è, altissimo), questo tempo ha avuto una sua importante utilità.
AAJ: La penso anch'io nello stesso modo e mi spiace che, invece, siano così pochi a rendersene conto. L'ansia dettata, anche comprensibilmente, da mille cose—il rischio del virus, il cambio di abitudini, l'assenza di reddito, i timori economici per il futuro—ha impedito ai più di cogliere i molti elementi positivi che ci offriva la situazione, che potevano essere un escamotage per cambiare qualcosa in un mondo che anche prima era pieno di aberrazioni.
GM: È vero, sebbene molti siano stati travolti dalle difficoltà. Ma non posso non sottolineare che, anche prima di questa situazione, le cose non andassero esattamente a gonfie vele e come la gran parte dei musicisti non vivesse di musica. Non posso dimenticare di quanto ci siamo lamentati per non avere il tempo di provare, di scrivere, di progettare... Questo forse era il momento per prendersi quel tempo. Ma può anche darsi che io veda le cose a questo modo per ragioni anagrafiche...
AAJ: In effetti gli anni passano: da quando ti intervistai la prima volta ne sono passati quattordici ed era appena nata Amirani Records, che oggi ha un bellissimo e invidiabile catalogo di sessantacinque titoli. Cominciamo da qui, dalla vita dell'etichetta.
GM: Guardavo il catalogo proprio qualche giorno fa e consideravo che complessivamente sono abbastanza soddisfatto di questi tre lustri di attività. Certo le condizioni sono profondamente mutate, a cominciare dalla liquidità della fruizione. Il catalogo è ora disponibile quasi completamente anche in digitale. Nel corso degli anni ho ricevuto davvero molto materiale, ho spesso rifiutato anche cose molto buone, ma sempre per ragioni di possibilità. Tuttavia, credo di avere tenuto aperto il ventaglio delle proposte editoriali e cercato di mantenere integra l'identità della label. C'è stato un periodo in cui ho immaginato la collaborazione si potesse allargare, potesse formarsi un team... Non è andata così. Forse l'Italia non è un paese adatto a formare squadre... o forse, più semplicemente, il mio versante individualista non agevola la collaborazione. Ma questo, in fondo, non ha penalizzato l'etichetta, direi. Forse ne ha indirizzato meglio l'identità, che oggi mi sembra sufficientemente chiara, magari a discapito di una più numerosa produzione.
AAJ: Sembra anche a me, proprio per questo ritengo che per la musica improvvisata in Italia Amirani sia stata un momento importante: le ha dato una visibilità e un'autorevolezza che a mio parere prima mancava. Non perché non ci fossero le etichette—penso per esempio a Setola di Maiale—ma perché la visibilità era diversa. E Amirani ha contribuito ad aumentarla per tutti.
GM: L'approccio editoriale era ed è molto diverso, perché l'ottimo Stefano Giust, con Setola di Maiale, ha un'apertura a 360 gradi. È una scelta coraggiosa e anche necessaria. Non credo esistano altri cataloghi di quella portata. Quando guardo i numeri resto sempre stupefatto, ha un catalogo immenso, con alcune cose di livello altissimo accanto ad altre più modeste, ma sempre genuine e frutto di un lavoro originale. Il mio lavoro è diverso. Personalmente sono sempre stato affascinato dalla "presunzione selettiva" del ruolo editoriale. Guarda per esempio certe case editrici librarie, osserva quanto sia importante il loro segno per l'opera che editano. È come un abbraccio che scalda ciò che pubblicano. Certe label hanno questa stessa caratteristica. Cito sempre l'austriaca Kairos, che adoro, per fare un esempio. La mia presunzione ulteriore è di avere questa funzione pur senza sovvenzioni, senza una squadra, artigianalmente. "L'orgoglio del pezzente," avrebbe detto mio padre.
AAJ: In effetti credo che la caratteristica di Amirani sia stata quella di presentare molto bene, anche a livello di copertine e libretti, lavori tutti di qualità e tutti di un genere magari ampio, ma comunque sempre identificabile in ragione della sua radicalità. E questo ha permesso di alzare il livello dell'immagine della musica improvvisata nel nostro Paese.
GM: Mi trovo spesso a insistere con i musicisti affinché ci sia rigore. Quello che si pubblica non deve essere un demo, deve avere la dignità per stare in un catalogo. Questo valeva per Amirani Records già ai suoi esordi, quindici anni fa, ma oggi forse ancora di più. Liquidità della musica e della fruizione, frammentazione dell'esperienza, piattaforme internet confusive a costo zero: perché fare un CD o un LP, costoso, faticoso e ascoltato molto meno? Un lavoro si pubblica quando si vuol mirare in un altro luogo, lasciare l'opera come un segno cui poter ritornare fisicamente. E questo può servire, come è infatti accaduto, a dare una visibilità e una dignità pubblica diversa al settore, a far sì che quell'opera non si perda nel mare delle proposte, possa essere ricercata anche a distanza di anni, oppure essere notata da soggetti che altrimenti non se ne sarebbero accorti. Io sono un po' old fashioned, l'ascolto per me continua ad avere un aspetto rituale, in un certo senso. Un buon esempio può essere la prossima uscita di Amirani: un lavoro del trombettista e compositore Mario Mariotti intorno all'opera di Boris Vian, in collaborazione con l'editore Marcos Y Marcos. Il disco, in vinile a tiratura limitata, sarà distribuito insieme al libro di Vian. Piccoli numeri, si intende, ma cose belle e fatte per bene, produrre le quali ha un valore in sé.
AAJ: E che, di nuovo, hanno la possibilità di gettare altra luce su un settore della musica altrimenti non solo trascurato, ma anche difficile da far conoscere per la sua indubbia singolarità.
GM: Anche da un punto di vista terminologico non è facile comunicare intorno a questa musica. La vocalist e performer inglese Viv Corringham mi raccontava che nel presentare per promuovere i suoi lavori evitava di usare la parola "sperimentale," in quanto intimorisce chi la legge o sente. Anche l'espressione "musica di ricerca" è controproducente. Picasso affermava che nessuno è interessato a uno che cerca qualcosa di nuovo, ma guarda con attenzione a chi ha trovato qualcosa: "Quando dipingo, il mio obiettivo è mostrare ciò che ho trovato, e non ciò che sto cercando. In arte le intenzioni non bastano."
AAJ: Ed è anche per questo genere di difficoltà, mi pare, che diventa importante la valorizzazione di tutto ciò che sta attorno alla musica: per comunicare con chi non conosce questo tipo di musica e far passare che c'è altro dietro quei suoni che al primo ascolto un inesperto potrebbe semplicemente considerare sgraziati e privi tanto di logica, quanto d'interesse.
GM: L'obiettivo è far giungere questa musica laddove non arriva. Condizione senza la quale il rischio di autoreferenzialità è alto, magari lamentando un immeritato isolamento. Ogni luogo è diverso e peculiare naturalmente, ma in Italia trovo necessario (ri)-costruire una relazione con l'audience, cosa che si è andata smarrendo nel tempo. Più che in passato tendo a costruire una relazione anche attraverso le parole. Nulla di particolare: indicazioni su quello che farò, oppure ho appena fatto; considerazioni su quel che mi guida, o che ho provato suonando. È questo un aspetto spesso trascurato, invece credo che su questo piano ci sia molto da fare, che curare con la giusta misura questa relazione permetta di rendere il cammino dell'ascoltatore in quella matassa di stimoli che gli viene offerta. C'è stato un tempo in cui l'ascolto era più attivo, meno "seduto," e questo tipo di aiuto non era necessario; ma oggi le condizioni sono veramente mutate.
AAJ: Io aggiungerei anche che si corre il rischio di scivolare nell'ideologia dell'ascolto non mediato, che ha un suo indiscutibile valore, ma va bene solo per l'ascoltatore già pronto ad affrontarlo. Nessuno "nasce" predisposto ad ascoltare la classica o il jazz o la contemporanea: se ne diviene capaci grazie a processi educativi attraverso i quali, spesso, si è passati inconsapevolmente; processi analoghi per la musica improvvisata sono rari: perché rifiutarsi di spargerne dei semi? Forse perché, come dice qualcuno, sarebbe paternalistico? Ebbene, credo sia il momento di riconoscere che ogni processo formativo è paternalistico, ma che togliendo quel paternalismo restano solo l'ignoranza e l'incompetenza, camuffate da "spontaneità."
GM: Condivido, ritengo davvero molto importante la ricucitura del rapporto tra opera e fruizione. La viva fragranza di ciò che accade nell'improvvisazione è talmente importante che non può esser buttata lì, confusa con altri stimoli. Credo sia importante individuare una strada, una lettura, attraverso la quale i diversi piani di ricezione di chi ascolta possano trovare il modo di cogliere gli elementi di interesse, di far voltare lo sguardo verso quel che accade, così da far tornare a casa le persone con la consapevolezza che durante il concerto sia successo, anche solo per alcuni momenti, qualcosa di vivo e rilevante. Vedo che anche le cose più ostiche, se introdotte, riescono a essere avvicinate meglio da un maggior numero di persone, per cui oggi fare qualcosa del genere mi sembra necessario. Il chitarrista John Russell, che è da poco prematuramente scomparso, mi ha ripetuto più volte come fosse necessario "to stay welcoming."
AAJ: Penso che servano anche nuovi spazi e nuove rassegne, che oggi mi pare manchino quasi completamente. Perché anche le cornici sono importanti ed è fondamentale che siano diverse da quelle di altri generi musicali.
GM: Questa è un'altra cosa sulla quale spesso insisto con le persone con cui collaboro, siano essi musicisti, organizzatori, responsabili di istituzioni: gli spazi devono avere il medesimo tipo di rigoredella musica che vi eseguiamo. Non possono essere buttati là: un pensiero vi deve risiedere. Se vogliamo avere spazi e possibilità -dobbiamo farlo mostrando di avere una caratura che ci differenzi e che dimostri il nostro peso. Un profilo magari di nicchia, ma che in mancanza di quella cura non avrà il riconoscimento che gli spetta. In un workshop che tenni nel Regno Unito ho usato l'espressione a detached profile per indicare questa figura.
AAJ: Un profilo—mi permetto di aggiungere—che potrebbe includere un aspetto importante dal punto di vista generale e umano, e che invece viene spesso trascurato: il fatto che l'improvvisazione non è solo un genere musicale, né è caratteristica solo dell'arte, bensì è una forma d'agire che l'uomo utilizza sempre e ovunque, anzi, che esercitiamo quotidianamente tutti, senza però che ci si sia mai occupati molto né di capire come la usiamo, né di imparare a usarla meglio. Parlarne, o farvi cenno, potrebbe avvicinare molti all'improvvisazione musicale.
GM: Ricordo che anni fa al Dimitria Festival di Salonicco, dove mi trovavo con Gianni Lenoci, il pianista Sakis Papadimitriou, che era il direttore artistico per la sezione "improvvisazione" del festival, ci chiese di fare una specie di introduzione approfondita prima dei concerti, ritenendo fosse proprio ciò che mancava al contesto della rassegna. Io e Gianni ci appassionammo alla cosa e gli esiti furono davvero interessanti: non solo un numero particolarmente elevato di spettatori al concerto, ma anche una serie di scambi e riflessioni successive al live, con i commenti del pubblico e anche di artisti di campi diversi. Ricordo l'intervento molto pertinente di un pittore che introdusse un confronto con l'ispirazione a dipingere, a partire dalle spiegazioni preliminari che avevamo dato. Una signora nel pubblico trovò una curiosa relazione tra quella musica e la freschezza dello sguardo, parlò di fragranza e disincanto. Bellissimo.
AAJ: Tornando ad Amirani, oggi qual è lo stato dell'arte?
GM: Le ultime uscite sono state molto ben accolte e importanti anche sul piano del coinvolgimento produttivo e personale. Di solito non brillo per autoindulgenza, ma credo di aver fatto un buon lavoro. Credo che in alcune di queste l'intensità creativa sia piuttosto alta. L'ultimo nato, A Few Steps Beyond, ultimo concerto tenuto dallo "zio" Gianni Lenoci, in solo al Talos Festival 2019, pochi giorni prima della sua scomparsa, è anche un documento importante e luminoso.
AAJ: So peraltro che ci si sta occupando degli inediti di Gianni, ne parlava il suo allievo Francesco Massaro in un'intervista di qualche mese fa.
GM: Sì, c'è moltissimo materiale, alcune cose molto buone. Mi auspico che, per gestirlo, si formi un soggetto con un profilo capace di valorizzare la grande quantità e la qualità delle cose che Gianni ha lasciato sui tanti versanti che lo interessavano: compositivo, esecutivo, didattico, critico. Il libro appena pubblicato da Haze-Auditorium Alchimia dell'istante, ci regala uno sguardo sulle molte sfaccettature della sua personalità artistica, la cultura non solo musicale e la sua acutezza: il suo lascito non può e non deve essere sprecato. Tornando all'etichetta, vorrei riservarmi un'uscita per un mio lavoro in solo, per poi dedicarmi a una ben precisa programmazione delle uscite successive: vorrei continuare a selezionare, anzi forse farlo ancor di più che in passato, limitandomi a due o tre dischi l'anno, ma curando molto tutto dal punto di vista concettuale. Insomma, guardando avanti l'etichetta farà meno ma, spero, farà meglio, selezionando i materiali migliori e pensando molto i progetti editoriali.
AAJ: Mi sembra una buona direzione, anche alla luce di quel che dicevamo prima: distinguere ciò che viene editato su disco da quel che finisce in rete, valorizzandone le specificità.
GM: L'esperienza sembra dire che l'edizione limitata, se ben presentata e curata, comunque arriva. Proprio stamattina da Anversa mi hanno chiesto il cofanetto (6 CD) di Anthony Braxton, che è il numero 14 del catalogo, adesso siamo al numero 65. Il fatto che cerchino un disco così "vecchio" significa che il catalogo funziona: mantiene attenzione sui prodotti artistici che raccoglie, fa sì che non ci si dimentichi di loro. Amirani Records ha anche qualche ascoltatore affezionato in giro per il pianeta: USA, Europa e Giappone. Alcuni fedelissimi collezionisti. Aggiungiamo anche che le uscite in vinile (per ora solo tre in catalogo) raccolgono nuove adesioni e interesse trasversale. Quando incisi il mio solo Further Considerations, per Tarzan Records, mi trovai a riflettere in modo differente alla musica che volevo fare. Il vinile cambia gli spazi disponibili—due facciate relativamente brevi—ti forza a pensare diversamente la tua progettualità. Inoltre, l'oggetto in sé presenta aspetti di relazione interessanti e nuovi per chi non lo conosce (per chi non è nato con i vinili). A parte il vezzo (mi è capitato diverse volte di vendere LP a chi non possedeva il giradischi!), vi è un aspetto rituale nel mettere un disco sul piatto, che chiama a una relazione forse nuova con l'oggetto per i più giovani... Non saprei dire. A me piacciono moltissimo e ne posseggo una quantità...
AAJ: Questo mi ricorda una cosa che ho ascoltato da Wolfgang Sachs, uno dei padri dell'ambientalismo, il quale per rivalutare il concetto di limite—che di solito pensiamo solo come una cosa negativa—usava la metafora del quadro, osservando che il pittore deve la possibilità di realizzare qualcosa di artistico proprio alla limitatezza dello spazio disponibile sulla tela: senza quel limite, finirebbe solo per riprodurre la realtà.
GM: In generale quello del limite è un concetto chiave, nell'improvvisazione e anche nell'esecuzione di partiture grafiche, una pratica compositiva e tattica cui faccio talvolta ricorso. Dirimente, all'interno di un contesto pulviscolare, capire come gestire la libertà e come costruire, o essere parte di, una forma, che è poi ciò che esprime la libertà stessa. Steve Lacy insisteva sull'utilità dei tight corners, il limite come luogo cui dedicarsi. Martin Davidson di Emanem ha pubblicato del materiale inedito di Steve in un album intitolato Free for a Minute, sua espressione fulminante per comunicare la necessità di darsi dei tempi per la libertà, senza i quali non si può neppure capire di essere stati liberi.
AAJ: In proposito, e in riferimento anche alla facilità di pubblicazione "liquida" delle performance di cui parlavamo, a me sembra che quest'ultima abbia insito il rischio di documentare anche improvvisazioni "non riuscite," ovvero concerti nei quali le cose "sono andate," ma non si è prodotto qualcosa dotato di una forma chiara. Secondo te, come si può distinguere un'improvvisazione "riuscita" da una che non lo è?
GM: Credo si possa dire che il discrimine risieda nella qualità, nella sincerità artistica. E che il rischio principale dell'improvvisazione sia il "catalogo," una pratica espositiva che fa ricorso all'intero vocabolario posseduto. È una cosa che succede spesso, l'ho vista fare anche ad alcuni miei "dei." È un rischio che bisogna correre e trascendere. L'improvvisazione ha forse a che fare con un'eccedenza, se è efficace produce qualcosa che rimane a farsi osservare per qualche tempo. Lascia segni. Il problema si situa nel passaggio dalla soggettività all'oggettività: quando si improvvisa, il punto di partenza è inevitabilmente la posizione dell'ego, che decide come e cosa agire nel suono. Ma, dopo questo avvio, è necessario andar oltre, applicando una determinata qualità complessiva di produzione e di ascolto. Se questo processo avviene si è anche in grado di lasciare, superare quella fase egoica, arrivando ad "appartenere" a quel che si suona, quasi fosse la musica a suonare il musicista. Questo passaggio è ciò che determina la qualità di un processo improvvisativo, lo avverto come dirimente. Non è facile descriverlo, o almeno io non ho molte parole per farlo meglio di così, ma è davvero ciò che distingue le improvvisazioni significative da quelle che non lo sono. Anzi, che talvolta sono proprio noiose, perché permeate da una catalogazione auto-affermativa, ombelicale. L'improvvisazione meglio riuscita ha un maggiore rispetto per il silenzio e per le voci di tutti. Per la forma, in definitiva. Un processo meno sommatorio, più luminoso direi. "Act not Re-Act."
AAJ: Cosa intendi per "forma"?
GM: In questa accezione, intendo per "forma," agire la pratica improvvisativa esercitando una visione del particolare e al tempo stesso, possibilmente, globale. Per me questo vale anche nella solo performance, non è una caratteristica esclusiva della comunicazione con gli altri. È ovvio che tutti noi abbiamo i nostri licks, la nostra biblioteca, tuttavia è importante che vi si arrivi ogni volta con freschezza e innocenza, quasi fosse la prima volta. È proprio questo che ci consente di guardare alle stesse cose con prospettive differenti e con stimoli diversi. Se si mantiene questo tipo di qualità, umana ancor prima che musicale, difficilmente un'improvvisazione fallisce: può darsi che non arrivi a quel livello di perfezione formale cui aspiravamo ma, se c'è questo passaggio dal decidere all'essere deciso e si riesce a non scivolare nel catalogo, allora la "riuscita" è quasi sempre assicurata. Non so se sono riuscito a rispondere...
AAJ: Sì, per quanto è oggi possibile rispondere non solo a te, ma a chiunque altro, direi di sì. Il problema è che ci si è sempre occupati troppo poco dell'improvvisazione, non solo come modalità artistica musicale, ma come prassi umana in generale, per cui siamo carenti in primo luogo di strumenti linguistici e concettuali, una lacuna che paga chiunque provi a esprimersi sull'argomento.
GM: Aggiungerei solo una cosa: ciò che informa l'improvvisazione è molto di più di quel che noi musicisti pensiamo. Noi stessi dobbiamo cercare di comprendere cosa sia questo "di più." Ricordo che Ran Blake, in un suo bellissimo libro, dice che questa musica è così ricca perché molte cose vi abitano e per suonarla bene è necessario guardarsi attorno, essere consapevoli del periodo storico in cui si vive, essere attivi e aperti rispetto al mondo. Non basta suonare e saper suonare, per fare improvvisazione.
AAJ: Con ciò siamo già passati da Amirani Records all'artista Gianni Mimmo, che con l'etichetta discografica è certo intrecciato, ma è anche ben altro, sia perché Amirani non si riduce a te, sia perché pubblichi anche altrove. E tu, in questi quattordici anni, di esperienze ne hai fatte tantissime, lavorando con musicisti più o meno noti, ma spesso veramente straordinari.
GM: Senza dubbio la nascita di Amirani Records ha aiutato anche la mia attività di musicista, forse rendendomi più visibile. Però, anche dopo la sua apertura, alcune delle mie collaborazioni sono nate semplicemente per affinità artistica. Quella con Satoko Fujii, per esempio, è iniziata perché Fabrizio Perissinotto di LongSong Records -che conosce bene il mio lavoro e che aveva da poco pubblicato un lavoro della Fujii -un giorno mi ha detto papale-papale: "Tu devi assolutamente suonare con Satoko, c'è un'affinità ineludibile." Il live a Milano e il giorno dopo la registrazione in studio sono stati semplicemente formidabili. Il disco Triad , pubblicato da LongSong è andato davvero molto bene. Nel mio tour in Giappone abbiamo suonato, anche assieme a Natsuki Tamura, in diverse occasioni. E così è nata un'intesa che poi abbiamo sfruttato in altri concerti e nelle registrazioni con Joe Fonda al contrabbasso.
Con quel trio dovevamo essere in tour in Austria, Germania e Polonia proprio adesso, ma ovviamente è saltato tutto per la pandemia. Da poco ci hanno confermato lo slittamento delle date all'anno prossimo, il 2022, speriamo bene. Joe era veramente entusiasta del trio: lui, oltre che estremamente capace, è molto generoso e offre una quantità di suggestioni, quasi tutte leggibili; Satoko, invece, ha un incedere quasi misterioso e per certi versi ricorda l'attitudine di Achim Kaufmann, pianista sopraffino del Sestetto Internazionale che ho costituito insieme ad Harri Sjolstrom: c'è un'estetica sempre sorprendente, una certa fragranza, che richiede dapprima concentrazione e anche una certa sobrietà, un equilibrio da abbandonare e cui ritornare.
Con altri le affinità sono profondissime... con Gianni Lenoci, per esempio, la nostra condivisione era sopraffina, mi mancherà per sempre. Con Alison Blunt, altra artista cui sono assai legato, abbiamo fatto molte cose e abbiamo una relazione quasi telepatica, nonostante siamo molto diversi. Anche la collaborazione con Vinny Golia è nata esclusivamente da affinità artistiche: ci incontrammo nel 2009 negli Stati Uniti, mentre ero là con Angelo Contini e Stefano Pastor per un'iniziativa sull'improvvisazione presso l'università di Denver, Colorado. Avemmo così occasione di ascoltarci reciprocamente dal vivo (io come musicista ovviamente lo conoscevo già), ci piacemmo, passammo del buon tempo a tavola e decidemmo subito di collaborare. Abbiamo dovuto aspettare il 2014, quando ho fatto un lungo e bellissimo tour negli Stati Uniti con Alison. Avevamo anche quattro date in California e la contrabbassista Lisa Mezzacappa riuscì a organizzarci un'occasione per suonare insieme. Da allora non ci siamo più mollati, siamo diventati molto amici e ci sentiamo spesso, ancora nei giorni scorsi... Abbiamo suonato in molti posti d'Europa, anche con lo "zio" [Gianni Lenoci]. In concerto Vinny è una macchina da guerra, ma condividiamo anche molte risate. Insegna al California Institute for Arts di Los Angeles, un gran bel posto, e adesso sta scrivendo dei bellissimi brani per orchestra. Ho un bel legame di amicizia e di collaborazione anche con il clarinettista tedesco Ove Volquartz, ho suonato moltissimo con lui... Ho avuto molte collaborazioni con artisti assai distanti per derivazione, trovando spesso la profondità, la sincerità: questo è davvero un privilegio.
AAJ: Sono curioso di sapere qualcosa anche delle tue collaborazioni con Silvia Corda e Adriano Orrù.
GM: Silvia e Adriano sono artisti gentili, preparati, colti e al tempo stesso semplici. Qualità rarissime. Mi verrebbe di dire che sono persone necessarie. Musicalmente, Silvia è bravissima e non smette di apprendere: adesso sta studiando "Musica ricercata" di Ligeti e "Diary" del compositore cinese Xiaoyong Chen. Sotto una leggera scorza si nasconde una grande intensità. Nel live emerge piano piano, ma inesorabilmente. Adriano è solido, ha un bel suono grave e sa ascoltare, cosicché in trio funzioniamo benissimo e, col passare del tempo, mi rendo conto che ho sempre meno necessità di spingere, c'è un bellissimo amalgama tra spazio e densità. Anche con loro (unitamente al percussionista Thierry Wazianiak, mio partner nel trio di Yoko Miura) più o meno di questi tempi dovevamo essere in tour in Francia, ed è il secondo anno che rinviamo.... Con Silvia, però in duo, ho anche fatto uno dei miei ultimi concerti dal vivo, a Cala Gonone Jazz lo scorso luglio. I tempi sono maturi per incidere un secondo album, dopo Clairvoyance, stiamo riflettendo sul programma. Quella è una formazione piuttosto cameristica, avere un'idea di come disporre i pesi drammatici di quel tipo di narrazione può permettere di ottenere un prodotto più compiuto. E loro sono persone con le quali è bello fare questo tipo di esperienze. Ci penalizza il fatto di vivere un po' lontani, ma siamo sempre in stretto contatto e senz'altro riusciremo.
AAJ: Artisti di provenienze geografiche e con ascendenze molto diverse l'uno dall'altro. A parte l'amore per modalità improvvisativa, c'è qualcosa che permetta di accomunarli, delle ascendenze stilistiche o degli ascolti che condividete?
GM: Sicuramente sì, senza però che sia possibile farne un elenco, perché siamo tutti molto aperti, curiosi, interessati a tantissime cose diverse. Considero che ci siano nomi imprescindibili che compaiono spesso nelle conversazioni... sia del mondo del jazz che della musica classica o contemporanea o antica. Tuttavia, oltre al rispetto e al peso stilistico dei giganti, compaiono spesso derivazioni estetiche originali, dei punti nodali per ognuno che risiedono in nomi secondari, ma illuminanti che presiedono le scelte di ciascuno di noi. Delle affinità che legano in modo sorprendente tempi e stili distanti. Personalmente credo di aver un debito con la scuola viennese dei primi del secolo scorso: Berg, Webern, eccetera. Lì io trovo una luce obliqua che ricompare in Braxton, così come il Roscoe Mitchell degli ensemble cameristici non ha un afflato lontano da certe arditezze di Gesualdo. Molti musicisti con i quali ho lavorato mi hanno suggerito ascolti specifici, alcuni solo per la luce di un intervallo, di una combinazione armonica... Questo del lockdown è stato un tempo per studiare, per ritrovare cose. Tracce di altri musicisti, semi coltivati da Eric Dolphy, resi noti da Yusef Lateef, riemersi in certe frasi di Bennie Wallace. Un intrico di sentieri nei quali spesso i rimandi sono così sorprendenti...
AAJ: Oltre a quel che dicevi, hai altri progetti in vista?
GM: Il mio ultimo concerto dal vivo è stato lo scorso 30 settembre al teatro Radar di Monopoli. Era l'anniversario della scomparsa di Gianni, in quell'occasione avevo portato un lavoro intitolato The Lost Frames, la mia musica intorno/insieme alle immagini di Andrea Montanari, che a sua volta aveva collaborato con Gianni un paio di anni prima. Il giorno dopo il contrabbassista Pierpaolo Martino e Francesco Cusa, che come sai ha lavorato intensamente con Gianni negli ultimi anni della sua vita, hanno fissato una sessione di registrazione nello studio di Mimmo Galizia. Ho ascoltato proprio in questi giorni il master di quella seduta. Ne è uscita una cosa piuttosto interessante, che ha un colore "telefilmico," un po' notturno. Ci trovavamo nello studio che era un po' la seconda casa di Gianni. Il pianoforte coperto ci ha osservato per tutto il tempo. Non tutti sanno della passione che aveva per certe serie televisive degli anni '60 e '70. Gianni conosceva bene la serie del Tenente Colombo e ricordava i primissimi episodi nei quali l'estetica della borghesia californiana contemplava scene di interni nei quali comparivano dipinti di Rothko, Barnett Newman e McLaughlin... A San Francisco, stavamo in piedi a guardare certi incroci e ci dicevamo che il set era la città, già pronto. Poco dopo sul molo gli scattai la foto accanto a Farrah Fawcett... Per farla breve, credo che pubblicheremo entro l'estate questo album per il quale abbiamo scelto tutti titoli, appunto, ispirati a telefilm. Sarà un po' la colonna sonora di quel momento di memoria. Perciò sarà in parte buffo, in parte groovy e in parte perfino lirico, quasi fossero i titoli di coda di un telefilm visto tanti anni fa.
AAJ: Curioso, o forse persino rivelatore, che una cosa così sia nata proprio in occasione di una commemorazione.
GM: Infine, come dicevo, nel corso di quest'anno di ritiro obbligato ho riordinato un po' di idee, perfezionandone alcune, cosicché ho una serie di cose pronte, per quintetto e per sestetto, che vorrei riprendere e realizzare una volta usciti/transitati dalla pandemia. Ma ripartire non sarà facilissimo e, come osservavo, sarà necessario ricreare anche modi e—soprattutto—luoghi dove fare musica: i migliori concerti che ricordo di aver fatto sono avvenuti in spazi come chiese, musei, atelier, nei quali l'arte era già a proprio agio, così che le antenne dei presenti—artisti e spettatori—erano già tutte dritte. Sarebbe bello ripartire tenendone conto. Per l'estate ci sono alcuni concerti in programma in Italia. Per scaramanzia aspetterei ad annunciarli...