Solar Ipse
by: Loris Zecchin
Intervista di Loris Zecchin per Solar Ipse intorno al disco mio preferito edito della label Tzadik:
FINGER LIGHT di Yuji Takahashi, Tzadik, Composer Series
Cito testualmente dalla nostra corrispondenza "penso che non ti indicherò il disco che preferisco, ma quello che ancora oggi mi intriga per una personale propensione a voler comprendere il processo creativo". Dato che è un cd sul quale ritorni spesso la domanda é: che tipo di percorso diresti che hai compiuto dalla prima volta che l'hai fatto girare nello stereo? A che grado di "penetrazione" pensi di esser arrivato?
Il mistero che avvolge questo lavoro per me risiede principalmente nella consapevole disinvoltura di Yuji Takahashi. Un poliedro trasparente nel quale elementi così distanti trovano relazioni e legittimazione reciproca. C’è un alito contemporaneo che attraversa anche l’ambito più tradizionale, c’è un’aura antichissima che risuona nei suoni più vicini al nostro tempo. Non è sorprendente, mi sono spesso detto, è un’attitudine molto presente nell’arte, nella società e nel pensiero giapponese. Una disinvolta coesistenza di elementi, in parte contraddittorii, che permettono sempre alle cose di rivelare una certa ineffabile fragranza. Come se ci fosse data l’opportunità di assistere al manifestarsi di una completezza inafferrabile. Volgere lo sguardo per scoprire l’oltre di un oggetto.
Nella musica di Takahashi mi pare quasi di toccare quella fragranza: l’aspetto, il frammento più lieve possiede un carisma, una assolutezza, in grado di brillare di luce propria. Questo più che al piacere dell’ascolto, più che alla bellezza, più che alla compiutezza e alla coerenza, ha a che fare con la verità.
E tutte le congetture stilistiche crollano come birilli.
Molti anni fa ebbi occasione di assistere a una rappresentazione di teatro Nō.
Come succede per diversi momenti musicali di questo album, i suoni di quella rappresentazione erano inesorabili. Come potessero rendere il silenzio, che li precedeva e che li seguiva, pulsante. Risonante nel suo proprio vuoto. Certi schiocchi, certe secche fratture come se l’aria si potesse piegare a quel silenzio, a quel gesto lentissimo dell’attore, carico di una tensione rappresa e densissima.
Un carattere contemplativo attraversa i colori di ogni brano di questo album e ogni volta ritorno a quest’ascolto rimanendone invischiato, come non riuscissi a comprendere questa totale assenza di ego. Nel brano “Yubi-Tômyô” è come se il suono del pianoforte fosse totalmente involontario, è come fosse il pianoforte a suonare il musicista. Eppure vi riscontro un rigore insondabile, un’aderenza esecutiva e interpretativa di quell’assenza.
Non a caso Yuji è un interprete abbastanza ineludibile di Earle Brown…
In “Mimi No Ho” è la tradizione a piegarsi ad una sospensione concettuale, una musica adagiata su un crinale sottilissimo, dove una non-narrazione compare come provenisse da un sogno.
Un aspetto davvero intrigante per me è il tempo che segna questo lavoro. Un tempo ultra-dimensionale, per così dire, cui non si può che aderire. Ha a che fare con una certa immanenza di questa musica, una sua facilità a contenere/aderire a un ritmo naturale, nel senso quasi letterale del termine. Un vento leggero che appena increspa l’acqua di uno stagno la cui luce è rotta dall’ombra. Non puoi che appartenere a questo tempo. Non lo puoi possedere, in un certo senso.
Io vi vedo scomparire la mente di questo compositore, come se la musica lo sublimasse e non ne avvertissimo che una pallida, fugace, ma assertiva, fantasmatica figura.
Ho visto su discogs che Takahashi ha una nutrita discografia. Quali altri titoli con/di lui, oltre a quello che hai portato in questo speciale, consiglieresti a chi come me non lo conosce?
Takahashi è un musicista capace di traversare gli ambiti più distanti senza perdere mai autenticità, straordinaria profondità e capacità penetrativa dell’ascolto.
Io ho incontrato la sua musica attraverso due album registrati in Giappone con Steve Lacy dove compare come pianista al quale è davvero difficile mettere etichette di qualsiasi tipo. Un caro amico che lo incontrò personalmente mi indicò le sue Goldberg variations e le sue interpretazioni di Satie.
Bellissimi i Six Stoichei per quattro violini, le sue interpretazioni di Cage e certe altre sciabolate elettroniche assolutamente imprevedibili. Ma davvero è un universo sconfinato nel quale perdersi. Certi autori impressionisti minori (ad esempio Frederic Mompou) affrontati con un uso del pedale quasi infinitesimale…
E poi avverto un “coraggio dell’incertezza”, un abbandonarsi consapevole, quasi sempre sull’orlo di un crinale sottilissimo…
Sono attimi così intensi che in Takahashi sono molto, molto frequenti.
Non distante da certe vertigini che trovi in Monk …
Le sue interpretazioni di Satie, per esempio, a mio parere, sono quelle nelle quali le voci interne sono particolarmente vivide, le puoi quasi vedere occupare una posizione nello spazio, nell’immagine sonora.
E poi quasi non distinguo in Takahashi il compositore dall’interprete. In entrambi i casi io ne resto mesmerizzato. Ognuno dei suoi percorsi contiene purezza, come quella di un danzatore, corpo e cuore e abbandono. Lo si ascolti suonare Xenakis o Bach, l’incanto è assicurato.
Strumenti tipici della tradizione del sud est asiatico che ti attraggono.
Ancora ricordo la sensazione simile a quella di librarsi in volo che ebbi a Pisa, alla fine degli anni ‘70, quando assistetti a un concerto di un’orchestra di gamelan.
Era la prima volta che una formazione del genere suonava in Europa, fu davvero un’esperienza totalizzante.
Il koto, la biwa e naturalmente lo shakuhachi… sono molti gli strumenti interessanti, ma rimangono “fuori da me”.
Non potrei suonarli, credo. Si tratta si un’estetica molto lontana anche se di enorme fascino. Durante un tour in Giappone ho assistito ad una cerimonia nella quale due donne suonavano lo shamisen a tre corde. La grazia che abita i movimenti della mano, la figura femminile e infine il suono sono per me indistinguibili.
Forse per ragioni personali sono piuttosto attratto dall’ ichighienkin, uno strumento a una sola corda particolarmente essenziale e per questo dotato di un’assolutezza incredibile.
Se nelle giuste mani è capace di incantare.
Naturalmente il mio interesse è forse più rivolto dai flauti di canna, ma non per lo strumento in sé, quanto per l’approccio fisico che a certe latitudini è in un certo senso svincolato dallo stile.
Hocchiku (Watazumi Doso ne è, credo, uno specialista imprescindibile) è una specie di antenato dello shakuhachi. Più difficile, più crudo se si vuole. La magia sta nella pratica, nell’adesione al respiro della natura.
A questo punto, tuttavia, non credo sia più lo strumento che genera l’attrazione quanto il percorso personale per entrarvi in relazione.
ENGLISH
I quote verbatim from our correspondence "I think that I am not going to show you the record I prefer, but the one that still intrigues me today for a personal inclination to want to understand the creative process". Since it's a CD you often come back to, the question is: what kind of path would you say you have followed since the first time you played it in the stereo? What degree of "penetration" do you think you have reached?
The mystery surrounding this work for me lies mainly in Yuji Takahashi's conscious nonchalance. A transparent polyhedron in which such distant elements find mutual relations and legitimacy. There is a contemporary breath that crosses even the most traditional sphere, there is a very ancient aura that resonates in the sounds closest to our time. It is not surprising, I have often said to myself, it is a very present attitude in Japanese art, society and thought. A casual coexistence of elements, in part contradictory, that always allow things to reveal a certain ineffable fragrance. As if we were given the opportunity to witness the manifestation of an elusive completeness. Turn our eyes to discover the beyond of an object.
In Takahashi's music I almost seem to touch that fragrance: the appearance, the lightest fragment has a charisma, an absoluteness, able to shine its own light. This more than the pleasure of listening, more than beauty, more than completeness and coherence, has to do with truth.
And all stylistic conjecture collapses like skittles.
Many years ago I had the opportunity to attend a Nō theatre performance.
As it happens for several musical moments of this album, the sounds of that performance were inexorable. How could they make the silence, which preceded and followed them, pulsating. Resonant in its own emptiness. Certain snaps, certain dry fractures as if the air could bend to that silence, to that very slow gesture of the actor, charged with a very dense and condensed tension.
A contemplative character runs through the colours of each track of this album and every time I return to this listening, I remain entangled in it, as if I could not understand this total absence of ego. In the song "Yubi-Tômyô" it is as if the sound of the piano were totally involuntary, it is as if the piano were playing the musician. And yet I find in it an unfathomable rigour, an executive and interpretative adherence to that absence.
It is no coincidence that Yuji is a fairly unavoidable interpreter of Earle Brown...
In "Mimi No Ho" it is the tradition to bend to a conceptual suspension, a music lying on a very thin ridge, where a non-narrative appears as if it came from a dream.
A really intriguing aspect for me is the time that marks this work. An ultra-dimensional time, so to speak, to which one cannot but adhere. It has to do with a certain immanence of this music, its ease of containing/adapting to a natural rhythm, in the almost literal sense of the term. A light wind that barely ripples the water of a pond whose light is broken by shadow. You can only belong to this time. You cannot possess it, in a certain sense.
I see you disappear the mind of this composer, as if the music sublimates him and all we hear is a pale, fleeting, but assertive, phantasmatic figure.
I have seen on discogs that Takahashi has a large discography. What other titles with/about him, besides the one you have brought in this special, would you recommend to someone like me who doesn't know him?
Takahashi is a musician able to cross the most distant areas without ever losing authenticity, extraordinary depth and penetrative ability to listen.
I met his music through two albums recorded in Japan with Steve Lacy where he appears as a pianist to whom it is really difficult to put labels of any kind. A dear friend who met him personally showed me his Goldberg variations and his interpretations of Satie.
Beautiful Six Stoichei for four violins, his interpretations of Cage and some other absolutely unpredictable electronic sabres. But really it is a boundless universe in which to get lost. Some minor impressionist authors (for example Frederic Mompou) faced with an almost infinitesimal use of the pedal...
And then I feel a "courage of uncertainty", a conscious abandonment, almost always on the edge of a very thin ridge...
These moments are so intense that in Takahashi they are very, very frequent.
Not far from certain dizziness that you find in Monk ...
His interpretations of Satie, for example, in my opinion, are those in which the internal voices are particularly vivid, you can almost see them occupying a position in space, in the sound image.
And then I almost don't distinguish in Takahashi the composer by the interpreter. In both cases I remain mesmerized. Each of its paths contains purity, like that of a dancer, body and heart and abandonment. Listen to him play Xenakis or Bach, the enchantment is assured.
Tools typical of the tradition of South East Asia that attract you.
I still remember the feeling similar to that of hovering in flight that I had in Pisa, at the end of the 70s, when I attended a concert of a gamelan orchestra.
It was the first time that such a formation played in Europe, it was really a totalizing experience.
The koto, the biwa and of course the shakuhachi... there are many interesting instruments, but they remain "outside of me".
I couldn't play them, I guess. It's a very distant aesthetic, even if of enormous charm. During a tour in Japan I attended a ceremony where two women played the three-string shamisen. The grace that inhabits the movements of the hand, the female figure and finally the sound are indistinguishable to me.
Perhaps for personal reasons I am rather attracted to the ichighienkin, a single-stringed instrument that is particularly essential and therefore endowed with an incredible absoluteness.
If in the right hands it is capable of enchantment.
Of course, my interest is perhaps more for the reed flutes, but not for the instrument itself, but for the physical approach, which at certain latitudes is in a certain sense detached from the style.
Hocchiku (Watazumi Doso is, I believe, an indispensable specialist) is a kind of ancestor of the shakuhachi. More difficult, rawer if you like. The magic lies in practice, in adherence to the breath of nature.
At this point, however, I don't think it is the instrument that generates attraction as much as the personal path to relate to it.