The New Noise
by: Nazim Comunale
Gianni Mimmo è sassofonista (inconfondibile la sua voce al soprano), artigiano (ha un laboratorio di restaurazione di sassofoni), improvvisatore, pensatore a tutto tondo ed ascoltatore profondo di musica di ogni tipo (lunga ed eclettica la lista delle collaborazioni), oltre che gestore di una etichetta con un nutrito e coraggioso, Amirani Records. Recentemente abbiamo ascoltato e molto apprezzato due suoi lavori che vi abbiamo raccontato qui. È giunto il momento di dargli la parola.
Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?
Gianni Mimmo: Ci sono tre momenti che ricordo, risalgono tutti alla mia infanzia: il suono dell’acqua che scaturiva dalla chiusa sul Naviglio lungo il quale la mia famiglia abitò per la prima parte della mia vita (credo che questo ricordo risalga al tempo in cui avevo 3 anni!). Un mio zio era professore d’ orchestra: da bimbo ho a lungo ascoltato i suoi studi alla tromba in certi pomeriggi. Infine intorno ai nove anni sono entrato di nascosto in un teatro vuoto, ma solo per curiosare… qualcuno aveva lasciato una porticina aperta. Una orchestra stava provando “La Mer” di Debussy. Ebbi un’emozione grandissima.
Gestisci un’etichetta dedita a musiche in qualche modo marginali da diverso tempo: il tuo punto di vista sullo stato dell’arte, in Italia e non solo, nel 2021?
La trasformazione è continua. In particolare, la modalità di fruizione si è spostata enormemente. Una “compressione” dell’ascolto è in atto da un paio di decenni. La musica fluisce in mille rivoli, spesso compressa per qualità e per tempo. Si raccoglie in playlist talvolta improbabili, che finiscono poi in minuscole cuffiette per un ascolto in metropolitana. I supporti hanno perso il loro peso, credo. Ciononostante, con fatica ed essendo io un po’ all’antica, credo ancora in una sorta di documentazione, che dimostri attenzione alla sincerità di certi lavori. Diciamo che si resiste consapevoli di dover custodire una piccola luce, ma anche del fatto che le cose si spostano, cambiano. Circa lo stato dell’arte: vedo molto “catalogo” in tutte le forme d’arte. Voglio dire che l’offerta è ampia (e tende talvolta all’entropia), ma anche molto confusa. La qualità tecnica si è alzata moltissimo, non la stessa cosa si può dire dell’aspetto concettuale. Il pensiero creativo è frammentato e ho spesso affermato che non vedo una “scena”. Singole scintille ma non un fuoco, ecco. È questo un argomento che in altri tempi avrebbe avuto forse maggiore rilevanza per gli stessi artisti. Trovo che, a maggior ragione oggi, quando correnti artistiche non esistono che per brevi frammenti di tempo, gli artisti dovrebbero incontrarsi di persona e illustrare i loro rispettivi sentieri. Tornare a parlare. Diciamo che vorrei che quelle piccole luci divenissero, di tanto in tanto, costellazioni. Credo abbiamo necessità di “focus”, ma che la tendenza sia allo “spread”. Oggi abbiamo molti emittenti e pochissimi riceventi, direi.
Musicisti che pochi conoscono e meriterebbero di emergere di più e meglio, secondo te? E poi, oggi che è esploso tutto, basta ancora – – ammesso che bastasse prima – la qualità da sola a farti emergere prima o poi? In Italia abbiamo una miriade di musicisti molto interessanti che lavorano sempre ai margini.
Non credo sia un tempo per “emersioni”. La parola implica un sopra e un sotto e i confini fra i mondi sono molto fluidi. Ma è vero che esiste un mainstream e molte cose che si accendono ai margini. Personalmente io credo che la qualità sia ancora un discrimine che rende i prodotti d’arte interessanti e ripercorribili, come tappe di un cammino cui fare riferimento. La categoria vale anche il mainstream, la qualità è un discrimine.
Continuo a ritenere i margini molto interessanti. C’è sempre una centrifugazione molto feconda, molti elementi si incontrano, certi funzionano, altri meno… Non ne faccio neanche una questione di tempo: credo che ci siano musicisti anche del passato, prossimo e remoto, che meritano di essere indagati. Però è anche vero che mai come oggi abbiamo avuto la possibilità di approfondire, l’esposizione è totale. Anthony Braxton, una volta, mi disse not really sure we can make a living from music anymore, but let’s stick to quality. La presenza, la permanenza, la continuità del nostro lavoro di musicisti si confronta con durate effimere. La legittimazione della nostra qualità è data dall’autenticità, dalla fedeltà al nostro sentiero. Gli ambiti musicali sono spesso autoreferenziali, forse è inevitabile, non so. Ma tutti abbiamo trovato qualità importanti in persone misconosciute, ai margini. Anche le gerarchie di pensiero sono saltate (non bisognava darle per scontate, mi dico): a me la qualità importa, per molti non è rilevante.
Il tuo rapporto con lo strumento: mi risulta tu abbia un’altra attività che lo riguarda, oltre a quella di musicista.
Una sorta di relazione con giornate di routine, gloriosi momenti e qualche scaramuccia. Studiare, sperimentare e apprendere a riparare, restaurare, ricostruire sassofoni, quella è stata benedizione credo. Ho un laboratorio dal 1992. Continuo a considerare quel lavoro prezioso, richiede concentrazione. Ancora lo sento come una meditazione, dopo tutti questi anni ed è una professione che mi resta addosso sempre. Mi ha aiutato a “vedere” il suono, in un certo senso e ad attribuire a ciascun strumento un carattere. L’immagine del suono che produce… C’è anche una prospettiva storica in questo. È un campo di studio che può rivelarsi molto, molto ricco di stimoli.
Che tipo di ascoltatore sei? Cosa stai ascoltando in questo periodo e come stai vivendo questi lunghi mesi complicati? In che modo influiscono sul tuo lavoro?
Il mio ascolto è molto curioso. Io amo moltissimo i rumori… È una cosa che ho avuto sin da bambino e che tuttora pratico. La profondità, la loro posizione intorno o lontano.
Nel tempo credo di aver applicato quella categoria anche nell’ascolto più propriamente musicale. Spesso, nella scelta di un ascolto, procedo per analogie estetiche e spesso le trovo in periodi molto distanti… La pandemia e il silenzio hanno di certo favorito un ritorno ad un ascolto più intimo, anche più accurato, direi. Ho riascoltato molto e, prevedibile, la prospettiva estetica è stata spesso rivelante. In questo periodo ho molto frequentato la musica di Alban Berg e di Webern, Schoenberg e anche Mahler, in generale il periodo viennese dei primi del secolo scorso. Sono interessato alla mutevolezza della forma. A come anche le declinazioni musicali più ardite trovino un riferimento formale nel quale avere luogo. Ligeti, il suo Kammer Konzert e le orchestrazioni di Gil Evans. E ho avuto anche un bel po’ di Bill Evans, cui periodicamente torno. Ci sono poi un paio di lavori a quali ho dedicato particolare attenzione: Rings del percussionista Masahiko Togashi e il concerto del 2000 a Tokyo di Lacy con Togashi e Yuji Takahashi al piano. Circa la “complicazione” di questi mesi: ho avuto più volte la sensazione che stiamo affrontando questa situazione in modo solamente tecnico. La pervasività del fenomeno ci interroga per categorie più profonde e mette in discussione un modello che da tempo mostrava la corda… E forse non abbiamo la statura politica per fare di più. Dal punto di vista artistico è veramente difficile: tutte le possibilità azzerate, svuotamento dell’agenda e difficoltà di mantenere un focus costante. Voglio considerare questo tempo utile per studiare, è indubbiamente complicato, ma credo che anche prima di questo tempo stessimo vivendo contraddizioni molto profonde. Tuttavia, mi colpisce il carattere forse ammonitorio di questo tempo. C’è senz’altro un “ripiegamento”, spero di riuscire a trovarne un’interpretazione fruttuosa…
Come pensi la musica? La “vedi”, la scrivi, la capti intorno? Fonti di ispirazione al di fuori della musica?
La prima fonte di ispirazione per me sono la pittura e la scultura. La dislocazione degli elementi nello spazio. Per me l’ispirazione nasce dalla forma e attraverso un processo, vi ritorna, osservandola da un’altra angolazione. Ci sono spinte interiori, naturalmente, anche.
È anche un’interazione con il proprio pantheon, la musica ha un altissimo potere di transizione. Con la consuetudine si spende meno tempo ad arrivare alla “stanza del tesoro”. Negli ultimi anni vedo più chiaramente che alcune osservazioni contengono dei semi. Oggettivare, sublimare forse, il percorso di quei semi è pensare la musica, per me.
Un mio maestro mi fece osservare quanta armonia risiede in un gesto atletico, mi invitò a riflettere al peso drammatico delle fasi di un salto. E mi invitò ad applicare quelle considerazioni alla mia improvvisazione. Fu molto importante. Anche quando studio ho a che fare con quegli elementi e spesso qualcosa nasce dalla pratica. Non si capisce sempre da dove viene l’ispirazione: a volte mi succede prima, a volte comprendo alcune cose dopo molto tempo. Vedo le radici e succede che ciò che pensavo come nuovo deriva in verità da qualcosa di molto antico.
Ti chiederei un ricordo di Gianni Lenoci, un aneddoto, quel che vuoi.
Abbiamo avuto 10 anni insieme, importantissimi sul piano umano e artistico.
Abbiamo viaggiato insieme in molte occasioni e condiviso luoghi e abitudini diverse. Mentre io, per natura, sono piuttosto adattabile, Gianni era restio, benché curioso, ad allontanarsi troppo dai propri gusti, dalle proprie abitudini. In questo opponeva una piccola ma continua resistenza che, nel suo linguaggio corporeo, si manifestava in una serie di micro-tensioni che a me sembravano buffissime. Ad esempio: le posture di Gianni erano rivelanti per me. In certi momenti era come non sapesse dove accidenti mettere le gambe. In aereo, in auto, in treno o in qualche metropolitana, Gianni cercava sempre un posto nel quale appallottolarsi in modo auto-protettivo spesso facendo scomparire la testa dentro una cuffia di lana. C’era qualcosa di teneramente infantile in questo che mi faceva sorridere. Oppure il suo sguardo smarrito dopo aver assaggiato qualcosa di troppo lontano dai suoi gusti… quello era esilarante! “Interezza” è un buon termine: a me piacevano anche i momenti nei quali perdeva le staffe. I momenti nei quali gli sembrava impossibile avere a che fare con l’ottusità, quando la mediazione e la flessibilità non erano per lui valori sufficienti.
C’era sempre un richiamo alla responsabilità dentro quei momenti. Voglio dire: era vero anche nei suoi momenti meno felici. Era intero.
Cinque dischi che hanno segnato la tua vita da ascoltatore? Se dico che Steve Lacy è stato importante per te, prendo una cantonata o ci siamo?
Steve Lacy è stato ed ancora è fondamentale per me. È un albero dai rami numerosi, al quale devo molto. Lacy, come pochi altri, coincide con il “proprio” suono a tal punto da esserne inscindibile. Questo è forse il primissimo elemento che mi ha segnato.
Allo stesso tempo dalla sua parabola traspare da subito una consapevolezza artistica evidente. Quindi la scoperta del proprio suono, una pazienza critica nel perseguirlo, una coesistenza di attenzione per il dettaglio e visione globale. Questi sono per me dei punti fermissimi della sua costellazione che hanno indirizzato la mia ricerca personale. Sono elementi evidenti nell’intero corpus compositivo e performativo di Lacy: concept, composizione, altissimo grado di libertà e rigore allo stesso tempo, improvvisazione che lascia il segno, sincerità artistica. Sono cose molto luminose, ispirative, che hanno indirizzato buona parte del mio percorso. Un’estetica cristallina e un rigore nella libertà che vanno al di là dello stile. È un poliedro troppo complesso per essere collocato in una posizione stilistica unica. Lacy trascende lo stile.
Cinque dischi sono pochi, ve ne sono molti… Tuttavia, vorrei citare:
J.S. Bach, “Cello Suites” – Archiv [nell’interpretazione di Pierre Fournier]
Anthony Braxton, “Five Pieces 1975” – Arista [con Kenny Wheeler, Dave Holland, Barry Altschul]
Steve Lacy, “Packet”, New Albion [con Frederick Rzewski, Irene Aebi]
Gil Evans-Steve Lacy, “Paris Blues”- Owl Records
Salvatore Sciarrino, “Luci Mie Traditrici” Opera in due atti – Kairos [nell’interpretazione del Klangforum Wien diretto da Beat Furrer]
Ma davvero sono molti, troppi per essere menzionati qui…
Hai collaborato con molti musicisti: cosa ti riserva il futuro?
Molte cose sono state sospese a causa alle restrizioni seguite alla pandemia, molte occasioni importanti sono state posticipate o rinviate a data da destinarsi: Sestetto Internazionale, il trio con Satoko Fuji e Joe Fonda, il mio trio Clairvoyance così come il duo con Alison Blunt e quello con Luca Collivasone. Anche i lavori con il testo, tutto polverizzato in una nebbia finissima. Nell’ultimo mio live il 30 settembre scorso (era dedicato a Gianni Lenoci ad un anno dalla morte) ho presentato un solo insieme alle immagini di Andrea Montanari. Entrambi abbiamo promesso di proseguire questo lavoro. Sto anche lavorando ad altre partiture grafiche e a un nuovo solo album. La scrivania è piena, diciamo che la tengo in ordine, ecco.