Percorsi Musicali
by: Donatello Tateo
Negli anni della sua formazione quale è stata la sua prima esposizione alla musica non idiomatica o informale o, forse e meglio, “altrimenti formale” ?
Grazie per la parola “esposizione”! E’ proprio così. Mi sono esposto presto, direi. Ricordo molti episodi che ora forse tendo a schiacciare nella prospettiva temporale.
Ricordo l’impatto dirompente di un live in solo di Cecil Taylor nel 75, alcuni dischi di Archie Shepp che aprirono delle porte importanti... Mitchell, Braxton, Marion Brown, naturalmente Coltrane, Lacy, Rivers...
Il primo numero della collana Musicha Nova della Cramps dedicato a John Cage fu una rivelazione incredibile. Lo comprai durante un festival rock davvero storico nel 76 a Milano, perché un brano era interpretato da Demetrio Stratos non conoscevo Cage.
Dei lieder di Webern che mio zio professore di tromba aveva messo sul giradischi mi sembrarono subito straordinari perché astratti e così simili a una sorta di paesaggio sonoro che andavo costruendo con il registratore a bobine che mio padre portò a casa, quando ero ragazzo...
Ho sempre avuto una forte curiosità per i suoni, per la loro dislocazione nello spazio. Ancora oggi mi appassiono spesso per il rumore di un’auto che corre in viale deserto di sera, per il clangore di certe officine o per il vento in montagna. A 14 anni ho registrato il treno e nel laboratorio di un tecnico il suono di quattro radio contemporaneamente accese sulla ricerca delle frequenze a onde corte...
Una volta lessi un’intervista a LaMonte Young nel quale ricordava il suono, lo schiocco, dei cavi elettrici al sole del deserto come la prima vera colonna sonora della sua vita. Capisco molto bene cosa intendeva...
Tuttavia credo che il concerto che Lacy tenne nella mia città in duo con il poeta bolognese Adriano Spatola nel 76, fu luce chiarissima.
L’aspetto sillabico, la geometria imprendibile e un lirismo astratto, puro... quello è un punto molto alto. E Musica Elettronica Viva, Alvin Curran...
Scoprì poco prima dell’esistenza di Nono, Berio, Maderna attraverso Emilio Vedova il quale tenne una lezione universitaria alla quale partecipai da liceale in fuga. Io penso alla pittura come alla mia più grande influenza, credo mi trovassi lì per quella ragione...
Nel suo percorso di scavo in contatto con il mondo fisico acustico, quale progressione si è verificata e verso quali orizzonti è orientato attualmente in questo senso ? E come risolve nella sua esperienza la relazione – se esiste - tra l’oggettività del suono come fenomeno fisico e la soggettività del suonare, nel senso di incontro umano di personalità nel fare musica?
Dapprima un processo di individuazione, di collocazione spaziale, poi la relazione nel tempo e i pesi drammatici. Vi ho sempre visto, riconosciuto una sorta di teatro. Quindi all’inizio la curiosità, poi l’aspetto analitico, gerarchico, dei suoni e di conseguenza un loro luogo, una loro casa, nel tempo di quell’ascolto. Crescendo, ho cominciato a portarli dentro quei suoni e poi a trovarmici immerso. Oggi la mia attenzione è per certi versi ancora più inclusiva: la differenza fra i suoni esterni e interni si è assottigliata, e ho una curiosità più articolata. Probabilmente questo dipende dalla consuetudine e dall’approfondimento dello studio dello strumento al quale mi sono dedicato. Armonici e parziali, risonanze, timbrica e suoni multipli, hanno ampliato lo spettro e anche reso più complesso l’intreccio.
Circa la parte pienamente soggettiva cui lei fa riferimento in questa domanda:
ciò che mi sforzo di fare è di avere una maggiore coscienza della mia posizione, più consapevolezza del mio intervento. Un’interpretazione sublimativa, potremmo dire, un tentativo di spostamento.
C’è un lavoro del 2003 che ho svolto insieme a un sound engineer molto sensibile, Lorenzo Dal Ri, che illustra molto bene ciò che intendo. Il lavoro si intitola Bespoken e consta in una raccolta di paesaggi sonori, field recording nello spazio dei quali ho intravisto, avvertito una narrazione, uno scorrere di sensi. Intervenire lì con il proprio strumento non è utilizzare un tappeto sonoro, è rendere complesso e sciogliere dei nodi di quel divenire, è cambiare prospettiva. Dopo questo processo la restituzione è quasi spirituale, c’è un respiro più profondo che attraversa la percezione.
Come interludi, abbiamo utilizzato il rumore di una stessa pioggia, ad una stessa ora, ma ripresa da differenti posizioni, interno ed esterno di una costruzione. Allora ecco che una naturale drammaturgia offre dei piani creativi molto interessanti. In fondo è sempre una questione spazio, di campiture espressive.
Con i musicisti con i quali collaboro, questa relazione si ripropone a seconda delle personalità, delle caratteristiche e delle derivazioni di ognuno, naturalmente. Il mio lavoro con la violinista Alison Blunt ha davvero a che fare con la prospettiva, con un pensiero formale complesso.
Con un terzo partner attivo dell’ensemble rappresentato appunto dall’ambiente nel quale suoniamo. Anche lì, con declinazione strumentale, abbiamo a che fare con la dislocazione di elementi, con sovrapposizioni, con gerarchie e con ritorni. Stessi oggetti sonori che si mostrano da altre angolature.
Questo è piuttosto evidente in Reciprocal Uncles, il mio duo con Gianni Lenoci, (ma anche ormai un brand che consente ampliamenti e intersezioni con altri musicisti disposti alla relazione). In questo duo gli oggetti sonori che si formano hanno poco a che vedere con un processo reattivo. Le risposte agli stimoli reciproci sono raramente dirette, ma piuttosto concorrono ad un’improvvisazione nella quale succedono delle cose, accadono fatti.
Esercitare un’attenzione al particolare e conservare un’idea complessiva:
conservare il senso della posizione, appunto, ma con un grande coinvolgimento fisico, attivo. Per certi versi estatico.
Ha partecipato a tutte le 8 edizioni del festival dell’ ISIM, società internazionale di base negli USA, di impronta accademica che “promuove performance, educazione e ricerca nella musica improvvisata e fa luce su connessioni fra improvvisazione musica le e creatività attraverso i diversi ambiti”. Puoi farci conoscere il valore di quel contesto e parlarci della sua workshop/performance in quella sede con Reciprocal Uncles nel luglio scorso a Chateau d’Oex ? Può precisare quali sono la sue procedure, declinazioni e linee di condotta nell’equilibrio del sound complessivo in ognuna delle formazioni con le quali ha maggiore consuetudine ?
Il principio, la scaturigine, per me è quasi sempre di natura timbrica. Voglio dire che il mio sguardo iniziale è spesso determinato dai timbri coinvolti.
Il mio duo con Harri Sjöström per esempio è un dialogo a specchio, un duo di sax soprani: in questo caso si parte quasi sempre da “dentro”, da una densità evidente e fortissima. Il processo è una dipanazione, uno sciogliersi in colori, uno scarto che da coincidente diviene parallelo e intersecante al tempo stesso. L’improvvisazione con Harri è una successione di big bang, nella quale la ricombinazione degli elementi derivanti dal dissolversi della densità dà luogo a una ricombinazione spesso divergente, dove si possono seguire più linee contemporaneamente.
Una delle mie combinazioni preferite è il trio con pianoforte e cello: ho due formazioni stabili con questa line-up: lo Shoreditch Trio (con Hannah Marshall al cello e Nicola Guazzaloca al pianoforte) e il Wild Chamber Trio (con Elisabeth Harnik al piano e Clementine Gasser al 5-string cello). Qui è interessante distinguere come, in una stessa line-up timbrica dichiaratamente cameristica, cambi la declinazione formale a seconda dei musicisti coinvolti. In entrambi le formazioni sento che il ruolo del sax soprano sia piuttosto assertivo, “davanti”, ma che proprio per la configurazione del trio le possibilità di interplay e di texture sono altissime. Nello Shoreditch Trio emergono spesso squarci melodici, per certi versi passionali, che sono interessanti da mitigare con la scelta di spazi, di aree larghe dove le voci tornino a farsi evidenti; nel Wild Chamber Trio le linee sono più algide, rigorose e pure: è un cristallo che non vede l’ora di sporcarsi un po’. Recentemente al Taktlos Festival di Zurigo abbiamo davvero fatto bene con questo trio: musica molto bilanciata, in termini espressivi. Abbiamo lavorato su una sorta di lunga suite, sentita però per capitoli. Movimenti, direi.
Reciprocal Uncles è un luogo dove davvero possono succedere cose. Suonare in duo con Gianni significa frequentare senza scampo la possibilità di spostamenti immediati, di cambi di profondità, di ricerca timbrica, di corse a perdifiato e di ascetiche astrazioni. Da quando abbiamo compreso di avere per le mani questa plasticità abbiamo aperto le porte alle collaborazioni: Cristiano Calcagnile, Ove Volquartz, Alison Blunt, John Hughes, Vinni Golia, Angelo Contini, Fabio Sacconi... Abbiamo lavorato insieme al cantante baritono-basso Nicholas Isherwood sui frammenti di Eraclito, con cori di canto gregoriano, con orchestre e large ensemble, con la danza. Davvero una logica propulsiva che abbiamo portato in Europa e negli USA.
Il mio lavoro con Alison Blunt è di genere alchemico, trasformativo. Negli ultimi due anni abbiamo condiviso il palco in oltre quaranta concerti, in Italia, Germania, UK, Belgio, Austria, Scandinavia e un lungo tour negli Usa. Abbiamo suonato in teatri, chiese, case, navi, centri sociali, festival, club, scuole, stazioni e parchi e ogni volta questo duo agisce una grande sincerità: per esempio non ha paura di essere lirico. Alison ha una formazione classica, un elegante senso formale e una flessibilità autentica, mai enciclopedica o dimostrativa. In questo duo la relazione con l’ambiente è fondamentale: ci sono concerti nei quali si operano sottrazioni: l’ultimo all’inizio di Agosto, nella chiesa di Sedbergh, Lake District, ne è stato un chiaro esempio. Certi concerti sono più importanti per le note che non suoni... Ma sempre privilegiamo un’idea complessiva, tendiamo a chiudere quando davvero vediamo un oggetto completo. In inglese usiamo spesso la parola delivering per descrivere la nostra performance. Alla fine rimane un oggetto. Delivered. La musica ha prodotto un oggetto che rimane lì, come a farsi osservare, per un poco.
Provo sempre stupore nel pensare alla disparità nel rapporto quantitativo tra la musica “scelta” per essere pubblicata/documentata e tutta quella “vissuta” privatamente e quotidianamente da un artista. Vuole dire qualcosa di questa relazione, tenendo conto anche delle implicazioni sulla produzione di musica definita “d’arte”?
E’ un tempo questo nel quale essere discriminanti rappresenta una funzione irrinunciabile. È un mondo nel quale la funzione principale per una mente creativa è discernere. Davvero è inutile, e in parte anche colpevole, aprire la propria cornucopia e versare soltanto perché oggi è più facile farlo. Inoltre in molti casi la cornucopia non esiste proprio. Ci sono cose che vanno consegnate e altre cui è bene riconoscere un ruolo più immediato, più funzionale. Poi ci sono dei semi che vanno fatti germogliare. Devi tenere un’attenzione complessiva sulla tua parabola . E poi ci vuole un tempo per pubblicare, per comprendere quale linea tenere. Negli ultimi due mesi sono dedicato a un lavoro registrato in duo con il chitarrista Garrison Fewell che è recentemente e prematuramente scomparso. Il materiale è davvero buono per molti motivi, tuttavia ci siamo trovati a scartare alcuni brani particolarmente ben riusciti, ma esteticamente isolati, a favore di una linea complessiva più coerente a tutto il lavoro. Il risultato ha un’intensità che permette una visione completa, una complessità fruitivamente permeabile e intera al tempo stesso, voglio dire che è importante capire dove va la musica che hai per le mani, che la tua considerazione non si può fermare al livello: “mi piace, ci faccio un disco”. Inoltre ci troviamo davvero di fronte a problema di mutamento, di frammentazione della fruizione che mette forse in discussione il concetto stesso di produzione. La tenuta nel tempo del tuo prodotto è un problema che investe oggi principalmente il suo versante appunto concettuale. E poi non è che siamo qui a fare antologia... La produzione è un’aggiunta, bisogna esercitare una qualche responsabilità circa la penetrazione che avrà, per minuscola che sia, quando sarà là fuori...
Come artista di questo tempo, quale comportamento sociale ritiene di mantenere? Occorre esser profeti, carbonari, monaci, non allineati per non subire le logiche mercantili che premono per “competenze” e “efficienze” allo scopo di auto - legittimarsi, de-potenziando invece, di fatto, lo sviluppo di autonome e sincere ricerche individuali?
Occorre essere sé stessi. Il compito di un artista è la sincerità, è osservare con attenzione i nodi e le contraddizioni del tempo in cui vive e trovare la possibilità di offrire un altro sguardo. Questa è l’unica legittimazione che serve alla propria crescita e alla ricaduta sociale del proprio “fare”. Se hai bisogno di legittimazione esterna, c’è qualcosa di incompleto. Ma almeno non cercare una legittimazione in un posto dalla quale essa non può arrivare. Se la tua funzione è quella di istillare dubbi, prospettive differenti, provocare spostamenti lievi o profondi; e se vuoi farlo assumendone la responsabilità, facilmente sarai già non allineato. Probabilmente starai già compiendo un cammino rigoroso e monacale. Questo rigore non lo si trova soltanto nei percorsi non convenzionali. Personalmente conosco artisti che agiscono davvero bene in ambiti non carbonari per i quali nutro un grandissimo rispetto. L’autenticità non ha confini. Ho avuto modo di vedere una mostra molto esaustiva dei dipinti di Felice Casorati: non stiamo parlando di un rivoluzionario della pittura, ma stiamo parlando di un artista intero e consapevole, essenziale e straordinariamente ispirato. Casorati era sé stesso, credo abbia mantenuto questo contatto per lungo tempo.
Forse non possiamo dire la stessa cosa di un Basquiat, ad esempio, che amo e al quale nulla voglio togliere naturalmente. Ma in lui c’è anche molta energia sprecata per esempio...
E’ un percorso accidentato e intrigante allo stesso tempo, questo che facciamo.
Ritiene di doversi assumere delle responsabilità verso i fruitori della sua musica per una loro capacità di ascolto più evoluto e cosciente, o ha fiducia nella spontanea abilità individuale dell’audience di espandere il proprio orizzonte sensoriale ed estetico?
È una questione politica, sociologica e forse anche antropologica, molto complessa e che non manca di riservare sorprese. Ho curato per qualche tempo una serie di incontri di “invito all’ascolto musicale” presso un centro sociale. Proponevo ogni sera e per la durata di un paio d’ore diversi brani registrati che andavano dalla musica classica, l’opera, a quella popolare, al jazz, alla contemporanea e anche field recording. Ogni sera il titolo era rappresentato da concetti antipodali: Antichissimo- Modernissimo, Narrativo-Astratto, Profondità-Trasparenza etc. Il pubblico dei partecipanti variava ogni volta e le età andavano dai 12 agli 80 anni. Mi colpì moltissimo il grado di attenzione, di definizione dell’ascolto, la capacità di riconoscere dei più giovani e dei più vecchi. Nell’audience di età più centrale, l’attenzione era più “televisiva”, distratta, sommatoria, poco incline a un’analisi anche minima. Ecco, io penso che il rapporto da ricucire con l’audience sia particolarmente necessario in Italia per la fascia di età centrale. Tornare a suscitare delle domande, dei dubbi mi sembra particolarmente utile qui. Per farlo sembra necessario una specie di piccolo accompagnamento, talvolta. Questo, per motivi che sospetto politici e sociali, è meno frequente in altri paesi europei, dove in generale la curiosità è più attiva meno seduta, auto-indulgente, in sostanza pigra (divanizzata, dico io). Un’abitudine a programmazioni più varie, all’interno delle quali compaiano proposte diverse, aiuterebbe non poco. Un po’ di stretching mentale sarebbe senz’altro utile. Tuttavia sono complessivamente ottimista e credo che uno degli obiettivi più interessanti sia quello di portare questa musica nei luoghi dove non è spesso ascoltata. Questo è utile anche da questa parte del palco: sollecita una concentrazione e una messa in discussione circa le proprie pratiche comunicative. Ogni tanto mi viene suggerito di introdurre a parole un concerto, una performance: lo faccio volentieri, ma molto spesso introduco non a parole, ma con la musica stessa, attraverso una costruzione nella quale gli elementi musicali restino visibili ed individuabili per qualche tempo. Rendere più lentamente, come parlare con più calma. Questa è una cosa che mi intriga tantissimo, non semplicissima, ma straordinariamente stimolante...
Nell’ambito della musica improvvisata circola costantemente tra i suoi praticanti l’affermazione – e anche vanto – dell’ idea accogliente di “apertura”. Lei ritiene che questo si realizzi effettivamente ? In caso affermativo ritiene che questa riesca a superare la soglia del rapporto interpersonale “uno a uno” o, al grado massimo, di tante ristrette “cerchie” isolate le une dalle altre ?
Il rischio del cortile, intende? L’apertura di cui si parla è spesso poco più di una parola e la tentazione di circoscrivere un sicuro, auto-legittimante, rifugio è piuttosto diffusa. È necessario tornare ad alzare il livello del proprio pensiero anche riconoscendo che per un musicista la vita è molto dura oggi. Ci sono luoghi dove avere comunità artistiche aperte e curiose risulta più facile: mi manca molto il confronto con musicisti di area differente e anche di area contigua. In Italia la frammentazione è un problema che riguarda l’intero paese, non solo il mondo della musica.... Però anche qui, mi viene da esercitare un sano disincanto: pensare alto è una necessità. Un respiro più ampio è proprio salubre. Non si può pretendere che certe cose cambino immediatamente, ma si può fare il possibile per cercare un contatto con la piccola luce di ognuno. È un principio gnostico al quale sono particolarmente legato. La luce è sempre l’antidoto contro l’oscuro. Tuttavia all’oscuro mi piace sempre lasciare una chance... molto spesso giocare con le contraddizioni genera cose interessanti e positive. Quindi: non tanto l’apertura, quanto la sincerità della relazione mi sembra essere importante. La verità è sempre più importante della bellezza.
Un commento a questa affermazione di Paul Bley sul Tempo:"..I gave my metronome away when I was at Juilliard. I broke mine. They need to be smashed. Because breathing is not metronome. Breathing is circular. Up and down phrases, rushing through… The heartbeat is also not metrical. It’s PAH-BOOM, PAH-BOOM. And you can’t measure it exactly right. If you’re walking around the room, it’s definitely not metrical...This is the perfect time to wipe the blackboard clean and start with a fresh page.
PAH-BOOM è bellissimo e naturalmente amo questa affermazione.
Dopo aver cancellato la lavagna e, in certi casi, non avendo proprio considerato la lavagna, la pagina appare chiara, nuova, pronta per essere percorsa. A me capita di vedere che certi segni precedenti riemergono qua e là e il percorso diventa anche interessante per la profondità di certe radici.
In realtà la lavagna non è mai veramente pulita, ma è assolutamente vero che la mediazione antologizzante della teoria è un peso molto ingombrante. Alla parola “metronomo” oggi mi torna alla mente Ligeti: lui fa implodere la funzione stessa del metronomo sovrapponendone 100 con lievi de-sincronizzazioni. Un’operazione che è anche una metafora riuscitissima della modernità e della multi-versalità. Ecco una sublimazione di grande livello, nella quale le categorie coinvolte sono totali, da qualsiasi parte la si osservii, con la lavagna scritta e con quella pulita (o fatta di cancellazioni?).